Rovesciando la maledizione di Adamo: note sull’Ecofemminismo
La curatrice e studiosa Tara Londi in questo saggio fa il punto sul ruolo della donna dalla preistoria a oggi. Focalizzando lo sguardo sul tema della dea e su quanto i pregiudizi e le vessazioni nei confronti della figura femminile abbiano condotto ai disastri ecologici odierni.
Gli uomini, in realtà, sono metà donne. Non solo gli uomini sono costituiti dai cromosomi X e Y, essendo X il cromosoma femminile, ma Y è una ‘alterazione’ del cromosoma X che apparve solo molto più tardi nella zuppa oceanica della preistoria che fu l’inizio della vita umana sulla Terra, 300 milioni di anni fa.
Y è il cromosoma più debole, che diventa sempre più debole di giorno in giorno. Tanto è vero che gli scienziati chiamano questo fenomeno la “Maledizione di Adamo” e non escludono un futuro in cui noi umani torneremo, ancora una volta, a essere solo femmine (XX). Amen.
Questo semplice fatto scientifico può smentire i malintesi di una vita (sul “sesso debole”) e io, avendo nuotato per anni contro ondate di pregiudizi per arrivare alla loro fonte, sono diventata molto diffidente rispetto all'”abuso della storia per abbassare le aspettative“, per citare la saggia Toni Morrison.
Così, quando nel 2018 mi è stato chiesto di curare una mostra a Teheran, sotto il titolo All About Eve, Women As Nature (Tutto su Eva, Le Donne come Natura), in qualche modo ho dovuto sorridere.
Non è necessario essere fluenti nella teoria femminista per riconoscere il paradosso: l’identificazione della donna come natura e dell’uomo come cultura è uno dei più sinistri e potenti pregiudizi contro l’emancipazione delle donne.
We Won’t Play Nature To Your Culture (Non Interpreteremo la Natura Nella Vostra Cultura, 1983) di Barbara Kruger testimonia contro secoli di sottomissione. E la stessa Eva, la prima donna, fittiziamente nata dalla costola di Adamo, (con il suo vecchio amico serpente) è il simbolo della malvagia tentazione per la quale tutte le donne, fino a oggi e in diverse misure, cercano ancora la redenzione. Il peccato originale, ebbene sì, ma il peccato originale contro le donne. All’epoca, tuttavia, avevo curato una mostra collettiva femminista, Mademoiselle (CRAC, Sète); 37 artiste che esplorano l’eredità dell’arte femminista nell’arte contemporanea, e i paradossi di essere una donna oggi, attraverso un senso dell’umorismo spietato. Quindi ho pensato che nominarmi per una mostra in Iran su Eva nascondesse consapevolmente un programma sovversivo negli organizzatori e che io, tra tutti i curatori, fossi stata assunta per superare in astuzia la censura islamica. Ho accettato.
Questa esposizione mi avrebbe fornito l’opportunità di affrontare la controversia concorrente che circondava la “rilevanza oggi delle mostre per sole donne” come Mademoiselle, un dibattito che ho ritenuto precipitato e ingiusto. Dopo tutto l’Iran, e anche molti Paesi occidentali, sono la prova che l’emancipazione delle donne è direttamente collegata alla nazionalità, alla razza e alla classe sociale e che il progetto femminista è lungi dall’essere realizzato.
LE DONNE E LA NATURA
Gli artisti, come tutte le donne della storia, si sono dovuti avvalere di ogni sorta di trucchi e allegorie per esprimersi in regimi totalitari. Questa è una forma d’arte in sé che manca nei musei e nei libri. Inoltre, discutere della natura e della crisi ambientale è diventato, a Teheran e altrove, pericoloso quanto discutere il femminismo stesso.
Quindi, soffermandomi sul femminismo, sul ruolo della natura e sul regime repressivo dell’Iran, ho iniziato a chiedermi perché sono così radicalmente contraria all’identificazione tra donne e natura? Cosa c’è di sbagliato nella natura? E perché e come, noi donne, siamo state associate alla natura? Ma anche, volgendo il dibattito al tempo presente: quali sono le conseguenze dell’associazione delle donne e della natura per l’umanità in generale? Quali lezioni possiamo trarne oggi? Ed è così che, da curatrice femminista, mi sono “evoluta” in un ibrido di ‘storica’, ‘archeologa’ e cosiddetta teorica dell’arte eco-femminista.
La storia che ho scoperto non è solo lunga, ma vecchia quanto il tempo stesso, e invece di fornire una risposta esaustiva, solleva molte altre domande, che sono finestre su mondi diversi. Questo breve articolo offre solo uno spiraglio da alcune di queste finestre, ma può fornire un’introduzione all’ecofemminismo e all’arte ecofemminista.
Partendo dall’inizio, basta guardare Gaia, (Gea), la dea greca primordiale della Terra, “la Madre di tutti”, e vedere che ha mille nomi femminili. Nell’antica Anatolia era Cibele, in Babilonia Anat, in Egitto Iside e Hathor, nell’Irlanda celtica Dana, in India Anapurma “la fornitrice”. I continenti ‒ Asia, Africa ed Europa ‒hanno preso il nome dalle manifestazioni della Dea e ogni nazione ha dato al proprio territorio il nome della propria Madre Terra: Libia, Lidia, Russia, Anatolia, Olanda, Cina, Ionia, Akkad, Caldea, Scozia (Scozia), Irlanda (Eriu, Hera) erano solo alcuni.
“Le donne sono le inventrici della cultura: una cultura che non è l’opposto della natura, come insegna la scuola di pensiero occidentale, bensì una con essa”.
Il pianeta Terra, la Natura, appare nel corso di 30.000 anni di storia antica come una divinità femminile, la Grande Dea, fonte di tutta la vita umana, animale e vegetale, ma se in principio questo poteva essere un omaggio alla donna, con il tempo è diventato una doppia maledizione, sia per le donne che per la natura.
La conoscenza dell’arte diventa un grande vantaggio nel tracciare questa evoluzione inintelligibile e, soprattutto, nel riconoscere l’ethos duraturo della nostra spiritualità ancestrale basata sulla Terra nel subconscio collettivo di oggi.
Gran parte della mia ricerca si basa sulle teorie, estese e ampiamente accettate, dell’archeologa Marija Gimbutas sulle persone preistoriche. Gimbutas reinterpreta la preistoria europea alla luce delle sue conoscenze di linguistica, etnologia e storia delle religioni e sfida diverse teorie riguardo alle premesse della civiltà europea e alla natura umana stessa.
Le sue ricerche in Anatolia, (Turchia), e in tutta quella che oggi è l’Europa, rivelano l’esistenza di una sofisticata civiltà matrilocale pre-indoeuropea che lei chiamava “cultura preistorica della dea”. Cominciando nel Paleolitico e terminando solo con la cultura patriarcale dell’età del bronzo, durò fino a 160.000 anni.
Secondo la sua interpretazione, le società matrilocali non erano solo pacifiche ed eguali, ma veneravano gli omosessuali e favorivano la condivisione della proprietà. È innegabile che il valore di questo dibattito vada oltre l’interesse storico, poiché le teorie di Gimbutas vanno al cuore delle questioni fondamentali sulla natura e le possibilità umane. Gli esseri umani sono innatamente aggressivi e dominanti, condannati a distruggersi l’un l’altro e la Terra? Oppure, come suggeriscono le sue teorie, siamo in grado di creare culture basate sulla cooperazione e sulla pace? Nessuno dei libri di Gimbutas sulla civiltà della dea appare nei programmi scolastici, ma sono invece nascosti negli angoli dei cosiddetti dipartimenti di studi femminili delle biblioteche più progressiste (spesso con libri sul benessere mentale, come ammettendo che le depressioni femminili siano strettamente collegate all’esclusione delle donne dalla storia).
Tuttavia, il valore della rivelazione di Gimbutas riguarda tutti.
DA JUDY CHICAGO A WALTER BENJAMIN
L’opera dell’artista femminista Judy Chicago del 2019, If Women Ruled the World (concepita, ma non eseguita, come Inflatable Mother Goddess nel 1977), contribuisce alla serie di domande sulle conseguenze dell’esclusione delle donne dai ruoli decisionali nella storia. In questo lavoro, Chicago ha fatto sedere il pubblico all’interno di una gigantesca figura di dea nei terreni del Museo Rodin, presentando al suo interno l’installazione The Female Divine, una moltitudine di arazzi che sollevavano domande come: “Gli edifici assomiglierebbero a dei ventri?” “Dio sarebbe una donna?” “Ci sarebbe violenza?” “Sia le donne che gli uomini sarebbero gentili?” ma anche “La Terra sarebbe protetta”?
In On the Concept of History (1942), Walter Benjamin ci metteva in guardia: scrivere la Storia significa accendere e spegnere la luce nella stanza, e poiché “è scritta dai vincitori”, è innegabilmente unilaterale; ecco perché le femministe parlano di “His-tory”.
Tuttavia (e grazie all’interpretazione di Marija), se, come anche sostiene Walter Benjamin, “i miserabili cinquanta millenni di Homo sapiens rappresentano qualcosa come gli ultimi due secondi di una giornata di ventiquattro ore” e “l’intera storia dell’umanità civilizzata, su questa scala, occupa solo un quinto dell’ultimo secondo dell’ultima ora”, l’arte eco-femminista testimonia che la conoscenza silenziosa dei millenni antecedenti, è sopravvissuta fino a oggi, attraverso la saggezza trasmessa (e cancellata come mito) dalle (sagge) donne (cosiddette streghe).
Immanenza, animismo, olismo, il potere della magia attraverso il rituale, la geometria sacra, il rispetto del mistero e la fede nel ciclo infinito della vita: l’arte ecofemminista riafferma o si basa sulla visione preistorica del mondo, che non fa distinzione tra lo spirituale e il materiale, il sacro e il secolare.
ARTISTE ECOFEMMINISTE
La serie Silueta (1973-80) dell’artista femminista Ana Mendieta, ispirata ai riti e alle credenze voodoo cubane, non è così diversa dalle cerimonie ancestrali di comunione con la Terra. Le raffigurazioni di vulve di Judy Chicago onorano il corpo femminile, proprio come la prima incisione su roccia 37.000 anni fa ad Abri Castanet in Francia. I collage di donne con teste di animali di Mary Beth Edelson rievocano le antiche statuette di Venere, come la dea serpente dalla testa di uccello dell’Egitto predinastico (4.000 a.C.), che combina magnificamente due potenti totem, l’uccello e il serpente, antichi simboli di nascita, morte e rinascita.
Questi non sono casi isolati e il loro non è solo un omaggio all’arte preistorica. La corrente sotterranea ‒ estetica, simbolica e multisensoriale ‒ di gran parte dell’arte femminista porta in sé una (oggi rivoluzionaria) presa di coscienza rispetto al corpo umano, al mondo naturale e alla posizione umana nella rete della vita: questo è ciò che chiamiamo arte ecofemminista.
Gli autoritratti di Luchita Hurtado come paesaggi di montagna; i video sovrapposti di Pipilotti Rist all’interno del corpo umano e poi nel profondo della giungla (abilmente giustapposti in modo da non sapere quale sia quale); i dipinti senzienti di Romana Londi, che cambiano colore a seconda dell’ambiente; i movimenti di Donna Huanca, incarnando la convinzione animista che tutte le forme di esistenza hanno una forza vitale affettiva al loro interno e che tutti gli elementi ‒ corpo e oggetti ‒ sono impregnati di pigmenti cosmici, unificando e stabilizzando l’animato con l’inanimato, l’umano con il minerale, l’organico con il sintetico…
La lista delle artiste cresce e si moltiplica nelle giovani generazioni, che, sempre più, si avvalgono di conoscenze scientifiche avanzate come parte integrante del loro lavoro per resuscitare la nostra più antica conoscenza del mondo.
“È un mondo fatto da e per gli uomini che alla fine ci sta uccidendo tutti, uomini compresi”.
L’archeologia è essa stessa una scienza moderna. Solo nel 2013 attraverso uno studio su otto grotte preistoriche in Francia e Spagna, siamo stati in grado di identificare circa il 75% delle impronte di mani, come mani di donne (e adolescenti), e molte teorie suggeriscono che siano state le donne preistoriche che (attraverso il loro ciclo mestruale e l’esperienza fertile) hanno tentato di comprendere il concetto di “tempo” e “ripetizione”, inventando cerimonie per esorcizzare la loro paura e comunicare con l’energia vivente del mondo; una madre Terra di cui credevano di far parte e i cui figli ‒ nati miracolosamente dagli elementi naturali, anziché’ da rapporti sessuali ‒ partorivano magicamente.
In effetti, la ricerca suggerisce che né le donne né gli uomini abbiano compreso il ruolo maschile nella procreazione fino al periodo del Neolitico superiore.
Le prime donne artiste, secondo Marija Gimbutas, erano sacerdotesse che condividevano in tutta Europa un sistema comune di simboli, abbastanza sistematizzato da poter presumere che fosse una sorta di scrittura sacra antica:
“Le molteplici categorie, funzioni e simboli utilizzati dai popoli preistorici per esprimere il Grande Mistero sono tutti aspetti dell’unità ininterrotta di una divinità, una dea che è in definitiva la natura stessa” (Gimbutas, Marija A. The Language of the Goddess. London: Thames and Hudson, 1989).
Così, il libro eminente di Georges Bataille, Lascaux, ou la naissance de l’art (1955) dovrebbe essere letto dall’inizio alla fine come “Lei” invece di “Lui” (artista preistorico), proprio come la citazione di Barnett Newman del 1947: “Il primo uomo era un artista” dovrebbe chiarire che “il primo artista era una donna“.
Linda Nochlin, autrice di Why Have There Been No Great Women Artists? (1971) avrebbe esultato, dal momento che le donne furono probabilmente le prime artiste, e di qui potremmo facilmente ribaltare l’identificazione delle donne come natura e degli uomini come cultura. Per essere esatti, le donne sono le inventrici della cultura: una cultura che non è l’opposto della natura, come insegna la scuola di pensiero occidentale, bensì una con essa.
Negli Anni Sessanta, quando il movimento femminista sfidò la morsa ferrea del determinismo biologico, utilizzato storicamente per giustificare il controllo degli uomini sulle donne, le femministe si resero conto che la svalutazione dei processi naturali da parte della cultura fosse un prodotto della coscienza maschile di per sé. Una coscienza che denigrava e manipolava tutto ciò che è altro: la natura, le donne o le culture del terzo mondo.
La loro “intuizione” si dimostra premonitrice oggi che l’impatto dell’attività umana sulla Terra minaccia una crisi ambientale. L’Antropocene non è altro che il risultato del capitalismo [un’era in cui tutta la natura viene trasformata a fine dell’accumulazione del capitale ‒ Andreas Malm lo chiama Capitalocene (Malm, Andreas, Fossil Capital: The Rise of Steam Power and the Roots of Global Warming, Verso, 2016)], e il capitalismo è esso stesso il frutto dell’ingegno del patriarcato.
ECOFEMMINISMO, CACCIA ALLE STREGHE E AMBIENTALISMO
Il termine Ecofemminismo è stato inventato dall’autrice francese Françoise d’Eaubonne in Le Féminisme ou la Mort (1974). Dagli Anni Settanta si è trasformato in molti rami diversi di studi e prospettive, tuttavia, tutti incanalano una critica sugli effetti del capitalismo patriarcale sull’ambiente, non per radicalizzare l’affinità suprema delle donne e della natura, né per ribaltare l’identificazione delle donne con essa ‒ come opposizione binaria per uomini e cultura ‒, ma per far risorgere una comprensione primordiale del mondo come organismo vivente e incoraggiare la sostenibilità ecologica.
L’antica sacra scrittura, esposta da Marjia Gimbutas, quindi, estendendosi ben oltre la ben più recente dialettica dualistica della civiltà occidentale (che distingue e oppone uomini a donne, natura a cultura, animato all’inanimato) può rivelarsi la nostra unica strada per il futuro.
Con l’avvento delle religioni monoteiste e poi la rivoluzione scientifica, la cultura occidentale si è posta sempre più al di sopra e al di fuori di tutto ciò che era simboleggiato dalla natura e dal femminile (Merchant, Caroline. The Death of Nature. Wildwood House, 1980) Il capitalismo, scrive Silvia Federici, è iniziato come una guerra alle donne (Federici, Silvia. Witches, Witch-Hunting, and Women. Toronto: Between the Lines, 2018). Richiedeva sistematicamente una fuga dal femminile, lontano dalla memoria dell’unione con il mondo materno e un rifiuto di tutti i valori associati alla femminilità e alla maternità, compreso il nostro corpo. Il libro di René Descartes Discorso sul Metodo (1637), da solo, ridusse il corpo in modo che fosse distinto e al di sotto dell’anima, fornendo una sorta di automatismo e visione meccanicistica del mondo che è il prerequisito per il progetto capitalista di sfruttamento: l’invenzione della ‘materia morta’ (Bordo, Susan. The Flight to Objectivity: Essays on Cartesianism and Culture. Albany: State Univ. of New York Press, 1987). La parola stessa materia è etimologicamente legata a mater, che significa “origine, fonte, madre”.
La caccia alle streghe (un genocidio) è stata strategica per questo progetto. Denominare e perseguitare le donne come “streghe” ha aperto la strada al confinamento delle donne in Europa al lavoro domestico non retribuito. Ma anche l’arresto delle streghe, di solito donne anziane, ha sradicato l’antica comprensione animista della natura come organismo vivente. Allo stesso modo, nella storia coloniale, il culto della civiltà ha contribuito a giustificare il continuo sfruttamento delle risorse naturali e il controllo sugli abitanti indigeni.
Le femministe sono sempre state in prima linea nell’attivismo ambientale e le donne sono state le pioniere nella lotta contro la distruzione ecologica.
Il libro della scienziata americana Rachel Carson, Silent Spring (1962), ha gettato le basi per il movimento ambientalista che ha portato alla creazione nel 1970 della US Environmental Protection Agency. Wheatfield ‒ a Confrontation: Battery Park Landfill (1982) dell’artista Agnes Denes è ampiamente considerata come la prima opera d’arte a denunciare la crisi ecologica e la disuguaglianza. Oggi il suo valore è più rilevante che mai, sulla scia sia del cambiamento climatico che del crescente divario tra l’1% e il resto della popolazione del pianeta.
È opinione diffusa che l’esperienza sociale delle donne in famiglia, e il loro ruolo unico nella rigenerazione biologica della specie, significa che sono spesso le prime a individuare e sperimentare segni di malessere. Nel mondo industrializzato, le donne, spesso casalinghe non istruite, si sono sentite in dovere di ribellarsi contro l’irragionevole irrorazione di sostanze chimiche, rifiuti tossici, infiltrazioni di radiazioni da centrali nucleari, test di armi e la definitiva estinzione della vita sulla Terra. Le loro intuizioni si sono rivelate (inevitabilmente e purtroppo) sempre corrette.
Nel frattempo, nei Paesi in via di sviluppo, la lotta delle donne per sopravvivere in un ambiente rurale è direttamente collegata a una lotta ecologica, poiché le donne sono intimamente coinvolte nel sostenere e conservare l’acqua, la terra e le foreste da cui dipendono. L’ecofemminista indiana Vandana Shiva ha teorizzato la crescente sottomissione delle donne nel mezzo di quello che lei chiama “mal-sviluppo“, mettendo in discussione ciò che consideriamo e apprezziamo come progresso e ricchezza.
È evidente che anche la battaglia contro la crisi ambientale si gioca sulla base del genere, della razza e della classe. E diventa particolarmente evidente se si considera che i Paesi più poveri sono diventati lo scarico rifiuti di quelli più ricchi e che le cure disponibili contro i suoi effetti (malattie) dipendono dalla conoscenza limitata (a volte agghiacciante) del corpo e della salute delle donne. Il tabù che circonda il corpo e la sessualità delle donne è una delle conseguenze più acute della denigrazione della Madre Terra, della natura, dei processi naturali e della fuga dal femminile. Tuttavia, non riguarda solo le donne, ma anche gli uomini.
ECOFEMMINISMO COME RISCATTO
Il mio viaggio nell’ecofemminismo, mi ha portato proprio qui, oggi: rendendomi conto che la stessa ‘macchina’ che uccide le donne (il capitalismo) in realtà non risparmia nessuno. I corpi femminili sono passati dall’essere venerati all’essere fatalmente trascurati dal progresso medico e tecnologico, gli animali si sono estinti a un ritmo incredibile, foreste di vitale importanza scompaiono e l’umanità nel suo insieme è minacciata da un livello di inquinamento che è la nostra stessa produzione. È un mondo fatto da e per gli uomini che alla fine ci sta uccidendo tutti, uomini compresi.
Il termine Femminismo sembra sempre, almeno per me, una parola imprecisa (e ingiusta), quando il progetto femminista per l’uguaglianza si espande così spesso oltre la concessione dei diritti umani alle donne e, nel caso dell’ecofemminismo, denuncia come la ‘mascolinità tossica‘ ha ripercussioni sulla salute anche degli uomini. Gli animali, le piante, tutti gli esseri viventi sotto il sole sono interessati.
Alla fine, a causa del conflitto politico in corso in Iran, non sono mai riuscita a curare la mia mostra (segretamente ecofemminista) a Teheran. Eppure, nel 2019, ho raccolto la mia ricerca e l’ho presentata in Gaia Has a Thousand Names, An Eco-Feminist Exhibition al Museo Elgiz di Istanbul. Nonostante la sua rilevanza universale, l’esposizione ha ricevuto solo una piccola menzione nella colonna di una rivista d’arte dedicata a un elenco di mostre femministe.
Mi ha ricordato quando, negli Anni Sessanta, il luminare dei geo-scienziati James Lovelock propose di chiamare i geo-scienziati “Gaia-scienziati”, resuscitando la figura della dea per concedere ancora una volta al pianeta Terra la dignità di una vita propria, e come i geo-scienziati rifiutarono, imbarazzati e sminuiti di lavorare per Gaia, Madre Terra.
Al momento sto lavorando per creare una panoramica dei molti modi e forme in cui le donne artiste hanno, spesso inconsapevolmente, perpetuato antiche credenze e rituali che risalgono all’antica religione della dea e la loro rilevanza oggi. Oltre a scoprire molte artiste, il libro può anche fornire una storia parallela della Terra (una seconda Terra del secondo sesso), raccontata da quelle donne (streghe) le cui convinzioni il progresso scientifico ha dimostrato vere. Infatti, citando Starhawk, teorica del neopaganesimo e auto-proclamata strega:
“La fisica moderna non parla più di atomi separati e isolati, né di una materia morta, ma di flussi di energia, probabilità, fenomeni che cambiano quando li osserviamo e riconosce ciò che sciamani e streghe hanno sempre saputo, che energia e materia non sono forze separate, ma forme diverse della stessa cosa”.
Noi umani siamo solo una piccola parte di un grande aldilà, un organismo vivente, ed ‘ecologia’ ‒ Eco essendo Casa in greco ‒ potrebbe anche essere un altro termine piuttosto impreciso per ciò che non è certamente una costruzione umana, né dovrebbe essere considerata come tale.
Spero che il libro su cui sto lavorando, cosi come i libri di Marjia Gimbutas, raggiungano le scuole miste, aprendo finestre su mondi diversi e mettendo in discussione le narrazioni storiche per le prossime generazioni, e un giorno, chissà, arrivare in Iran. Non sarebbe solo una vittoria femminista, e il mio libro una semplice antologia d’arte ecofemminista, ma rappresenterebbe un trampolino di lancio verso la creazione di un mondo migliore per Tutti, e la nostra rieducazione, in definitiva, la nostra sopravvivenza.
‒ Tara Londi
Versione italiana del saggio pubblicato su The Signal House Edition #5, 2020
www.signalhouseedition.org/issue5essay
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