L’architettura oltre i limiti della disciplina. Intervista con Fabrizio Gallanti
Neodirettore di arc en rêve - centre d'architecture a Bordeaux, Fabrizio Gallanti discute a tutto campo del potere rivoluzionario dell’architettura e di una visione del domani che lascia spazio a una nota di ottimismo.
Ad agosto è stato nominato direttore di arc en rêve – centre d’architecture a Bordeaux, in Francia, un luogo di sperimentazione, il cui programma ha l’obiettivo di “risvegliare il desiderio nei confronti dell’architettura, favorire la creatività e aprire nuove prospettive su un mondo in mutazione”. Fabrizio Gallanti (Genova, 1969) ha una storia complessa e dinamica che lo vede in costante movimento tra discipline e luoghi diversi. È tra i fondatori del collettivo di architettura A12 (1993-2004) e dal 2003, insieme a Francisca Insulza, dello studio di progettazione e di ricerca FIG Projects con cui, tra le altre cose, cura la mostra The World in Our Eyes (2016) per la Trienal de Arquitectura de Lisboa del 2016. Dal 2011 al 2014, è direttore associato dei programmi del CCA – Canadian Centre for Architecture di Montréal, città in cui vive tuttora. Lo abbiamo intervistato per approfondire il suo spazio di ricerca, in attesa di vederlo all’opera a Bordeaux, a partire da novembre.
INTERVISTA CON FABRIZIO GALLANTI
Hai sempre nutrito una attenzione forte e vivace verso ogni aspetto della cultura, dalla gastronomia al cinema. In che modo influenzerà la linea culturale del museo?
Negli Anni Sessanta, Umberto Eco scriveva che l’architettura era una delle ultime attività umanistiche, perché ci si potevano leggere le tracce di molti soggetti, processi e compromessi. Mi pare che il progetto di architettura si possa ancora considerare come il punto di convergenza di tanti saperi diversi, che devono trovare un equilibrio affinché possa essere realizzato. Una volta costruita, l’architettura diventa lo sfondo di innumerevoli sguardi e azioni, completamente al di fuori dal controllo degli autori; ad esempio l’emersione dell’hip hop nel Bronx a New York alla fine degli Anni Settanta è indissociabile dall’edilizia residenziale pubblica, di stampo modernista. Per questo sono incuriosito da tutto e da tutti, perseguendo un modello di intellettuale generalista e assai poco specializzato. L’esempio, ovviamente inarrivabile, è quello di Alberto Arbasino. Il programma di arc en rêve continuerà a seguire, come fa già da quarant’anni senza dichiararlo, lo slogan di Hans Hollein “Alles ist architektur”: tutto è architettura.
Come ti relazioni alla linea culturale del museo? Ci sono elementi innovativi che vuoi introdurre?
La linea culturale del museo è ciò che mi ha condotto a candidarmi per il ruolo di direttore. Per questo non ne cambierei mezza virgola. Considerare l’architettura oltre i limiti della disciplina, raggiungendo pubblici diversi: esattamente come diceva Giancarlo De Carlo, “l’architettura è troppo importante per essere lasciata agli architetti”. Mi concederei il lusso di atterrare con calma per capire meglio come contribuire al futuro di arc en rêve, senza generare grandi stravolgimenti. Potrei dirti che, non essendo io del tutto francese (solo a metà da parte di mia madre) e non avendo mai vissuto in Francia, sia stato scelto anche per amplificare la voce dell’istituzione oltre i confini nazionali.
Puoi darci qualche anticipazione sul nuovo programma?
La programmazione del centro per il 2021 è in corso di affinamento, purtroppo soggetta com’è alla situazione della pandemia. Ma posso anticiparti un mio desiderio. Vorrei realizzare un programma di interviste, dove l’intera traiettoria di un autore sia sviscerata in pubblico, a puntate. Da un lato, ci sarebbe un critico o uno storico dell’architettura con un certo brio. Una nuova Esther McCoy o un nuovo Reyner Banham. Dall’altro, ci dovrebbero essere progettisti o artisti con una traiettoria già abbastanza lunga, sottoposti a lunghe sessioni di psicoanalisi, come fossero pezzi di teatro. Ti do almeno cinque nomi imprescindibili: Liz Diller, Álvaro Siza, Patrick Bouchain, Anne Lacaton, Peter Cook. E ovviamente Rem Koolhaas, ma lui sarebbe anche un perfetto intervistatore.
IL FUTURO DELL’ARCHITETTURA
Il museo come si relaziona alla città e ai suoi abitanti?
Uscendo dai confini fisici del museo stesso, come già fa da anni, grazie a un programma educativo molto robusto. L’origine di arc en rêve è affascinante. È infatti il frutto di un connubio nato alla fine degli Anni Settanta tra l’interesse per forme di pedagogia alternative, soprattutto dirette ai bambini autistici, incarnato da Francine Fort e la ricerca di metodi non convenzionali di progettazione, sostenuta da Michel Jacques. Entrambe alla guida dell’istituzione da allora. Il nome del centro è magnifico: “arc” per architettura, “en” per enfants, bambini. E infine “rêve”, sogno.
Come FIG Projects gestisci una pagina Facebook di grande successo, dedicata alla sperimentazione architettonica storica e attuale. Cosa hai appreso da questa esperienza?
Con FIG Projects ‒ che poi saremmo Francisca Insulza e io collegati da un computer scalcinato in un angolo di casa ‒ abbiamo capito che Internet permette di raggiungere ed essere raggiunti da un pubblico veramente mondiale. Scavalcare le differenze geografiche e culturali è stato il regalo inaspettato del nostro lavoro in rete, dove un progetto finlandese degli Anni Cinquanta è ripreso, rilanciato e commentato da lettori in Thailandia o Egitto. La sensazione di uguaglianza planetaria, stimolata da questi incontri virtuali, è quasi inebriante. Facebook ha capito bene come stimolare le endorfine con i like, aver raggiunto più di due milioni di persone con i nostri post negli ultimi 28 giorni è eccitante.
A proposito di “uguaglianza planetaria”, in un recente articolo ti sei detto ottimista circa l’impegno civile e politico della nuova generazione di architetti.
Noto che gli studenti sono sempre meno interessati a finire in uno studio ‘prestigioso’ o perseguire modelli di successo già vetusti. Sempre più spesso vanno a lavorare per amministrazioni pubbliche, istituzioni culturali od organizzazioni senza fini di lucro. Dichiarano di voler agire in luoghi dove le loro conoscenze siano mobilitate per il bene collettivo. Perlomeno nelle Università in Canada e negli Stati Uniti, le questioni di ecologia, redistribuzione delle risorse e uguaglianza sono diventate oramai centrali, e non mi pare che si tratti solo di una moda passeggera.
Parli anche di una possibile ‘rivoluzione’, in cui anche gli architetti abbiano un ruolo. Una istituzione museale come può influire?
Spero che qualora ‒ e penso che sarà così ‒ ci siano insurrezioni contro l’ordine delle cose, come in Cile o a Hong Kong o in Algeria l’anno passato, gli architetti si trovino dal lato giusto delle barricate, che non è necessariamente quello dei vincitori immediati. La crisi del Covid-19 ha svelato la profondità delle ingiustizie accumulate da decenni e non è credibile che si torni a una ‘normalità’ che faceva piuttosto schifo. Un’istituzione museale, soprattutto se pubblica, può accompagnare questi processi, accogliendo e sostenendo chi agisca con una preoccupazione politica, chi magari persegua posizioni minoritarie ma giuste e coerenti. Come, d’altra parte, dovrebbe negare risorse e spazio a quegli autori compromessi con le espressioni più ciniche del capitalismo contemporaneo.
FABRIZIO GALLANTI E L’ITALIA
Se avessi l’occasione di tornare in Italia, quale istituzione vorresti dirigere e perché?
Mi piacerebbe inventarne una che non esiste o che è scomparsa, dove si possano trovare tanti frammenti di luoghi che mi hanno affascinato: una piccola sala per proiezioni, come nei cineclub di una volta; un bar come quello della Architectural Association a Londra; un posto pieno di libri come la Calusca, quando c’era Primo Moroni; un club con il miglior sound system dell’universo e un giardino con un albero gigantesco; una galleria per mostre ma soprattutto atelier dove lavorare. Insomma, in fondo, un nuovo centro sociale autogestito! E ovviamente non vorrei dirigerlo, ma piuttosto far parte di un progetto collettivo. Sarebbe fantastico, inoltre, che si potessero vedere in mostra anche oggetti e opere molto antiche, non solo contemporanee, come in alcune case museo. Penso a quella di Mario Praz a Roma o a quella di John Soane a Londra. Immagino questo Centro, aperto 24 ore su 24, sette giorni su sette, in città come Napoli o Palermo.
E quale sarebbe la playlist del sound system?
Lou Reed, Perfect Day, 1972. Perché era la prima canzone del nostro matrimonio ma anche perché chi non vorrebbe un giorno perfetto dove ogni minimo dettaglio è quello giusto?
Pixies, No 13 Baby, 1989. Perché ha la coda migliore di tutta la storia del rock, il che vuol dire che è importante sapere come finire con un minimo di grazia.
Justice Vs Simian, We Are Your Friends, 2006. Perché gli amici sono fondamentali e perché è impossibile non ballarla, se sparata a pieni decibel. Diffido della gente che non balla.
‒ Emilia Giorgi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati