Il tempo lento di Cristina Kristal Rizzo a Torinodanza
Ha debuttato a Torino il nuovo lavoro coreografico di Cristina Kristal Rizzo. Una riflessione sull’atto del toccare post-lockdown. Un progetto di forte intensità che incoraggia a pensare una danza ormai distaccata dalle forme compositive, coloniali e sovraniste, dell’ammicco e dell’intesa tanto applaudite da una platea incapace di critica.
Commissionato prima del lockdown, il nuovo lavoro coreografico di Cristina Kristal Rizzo è diventato, durante il processo creativo, sempre in forse e sotto tutela di mille protocolli, la prima più vera risposta della danza alle difficili condizioni imposte dall’isolamento. La pandemia sembra qui aver insegnato molto: nulla può esser più come prima. Rizzo dimostra che anche la danza e la performance, oggi, sono un punto di condensazione di una vasta gamma di forze sociali e storiche, forme economiche e politiche e tecnologiche che riguardano soprattutto la produzione delle immagini e l’uso dei corpi. Chi pensa alla danza e alla coreografia come soltanto forme di intrattenimento cambi pianeta. Non è più possibile tornare al vecchio mondo.
IL NUOVO SIGNIFICATO DI TOCCARE
In breve: il toccare non è più (non può essere più) azione di appropriazione autoritaria o di conquista (patriarcale e coloniale) del corpo e dello spazio dell’altro, magari attraverso ben codificati vocabolari di movimento o egoriferite modalità compositive. Ma il toccare è atto di resistenza e liberazione senza rivendicazione di alcuna virtù prestazionale, sovrana o identitaria. Qui non c’è alcun ammicco: nessun calcolo di potere sui corpi, sui suoni e sulle azioni. Alla danza tutta baci, occhiolini e intese per l’applauso di tutti, Rizzo contrappone invece il riconoscimento e la condivisione. La riuscita non è più una parola d’ordine ma è consegnata nelle mani dell’altro. Rizzo ha fatto scelte importanti e ponderate: non è più immersa, nella sua ricerca, in ciò che non può più né dovrebbe essere danza. Il suo sguardo critico si è trasformato in quello di una decisa proposta. Su un piano di forte affermazione, la coreografa è tutta concentrata su cosa e soprattutto come e a quali condizioni può esserlo nuovamente. Senza fare finta di niente.
LA COREOGRAFIA DI CRISTINA KRISTAL RIZZO A TORINO
Toccare. The White Dance è in scena nei corpi di Annamaria Ajmone, Jari Boldrini, Sara Sguotti, Kenji Paisley-Hortensia oltre che di Rizzo. E in modo sorprendente in perfetta sintonia con tre musicisti, Ruggero Laganà (clavicembalo e direzione musicale), Antonella Bini (flauto) ed Elio Marchesini (percussioni), che in scena elaborano con arrangiamenti verticali e travolgenti le musiche barocche per clavicembalo di Jean-Philippe Rameau. Qui il piano dell’incontro tra danza e musica è straordinario perché avviene in dinamica: ogni rimando storico sarebbe inopportuno oltreché illegittimo. Questa danza non cerca di imporre autorità, dunque non prova nemmeno a imporre consuete e storicamente riconoscibili modalità di scambio. Il perfetto disegno delle luci, analitiche e orizzontali, sempre emancipate dalle regole sceniche, invece è di Gianni Straropoli.
AFFRONTARE LA CRISI CON LA DANZA
Il coraggio e la lungimiranza dei produttori (Tir Danza con Mito Settembremusica, Torinodanza e Milanoltre Festival i principali) devono essere ammirati e applauditi perché, ora come non mai, si tratta non solo di fare e produrre per tenere insieme un sistema: si tratta soprattutto di trovare corpi e pensieri per affrontare e attraversare la crisi, insieme. Nessuno escluso. Non c’è niente di concettuale in questo disporsi dei corpi in strategie di movimento soltanto connesse con l’occasione che li tiene sul palco. Come una epifania senza l’obbligo del rito e del mistero. Anche la musica non è mai un punto di partenza, perché non è l’arrivo o il compimento di un disegno la meta di ognuno. Ajmone fin da subito appare in un temperamento solidale con il progetto coreografico e insieme attivato su un ampio ventaglio di risposte. Danza su tutto, anche le forme del costume, e non si vorrebbe vedere altro. Così Boldrini sembra una leva attorno cui si organizzano linee e pesi anche nella stasi, o nell’esibizione piena di niente delle immagini al limite del leggibile mostrate sullo schermo di smartphone. Così come nelle prese inedite, nei lifts un po’ comici, sempre assunti in una distanza compassata, sempre connivente. Qui gli interpreti si divertono ma non a spese di chi guarda. La presenza, meno articolata perché meno formata, di Paisley-Hortensia autorizza a pensare che i piani di partecipazione, per Rizzo, possono ormai essere pensati come sovrapposti: non sotto dittatura del curriculum ma nella bellezza del restare, e del mettere in comune. Sguotti, poi, funziona come disturbatrice delle forze, in senso elastico: come incremento delle energie in movimento; e come rallentamento della formazione delle immagini. Nel duo finale con Boldrini, tutto si ferma e si rallenta: nel tempo lento di questa danza nuova, tutto ritorna, anche il più virtuoso gioco di partnering, e qualcosa appare, resiste in tutta la sua materialità.
Perché la danza, parafrasando Borges, quando il cielo è propizio non è una forma subalterna della festa, ma una forma laterale della critica.
‒ Stefano Tomassini
http://www.torinodanzafestival.it/
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