Al di là dei nomi ormai consolidati – per fare un solo esempio: Carmelo Bene –, la storia del Nuovo Teatro Italiano è costellata di una serie di eccellenze che rimangono patrimonio solo degli studiosi e degli addetti ai lavori. La ragione è presto detta: oltre all’indubbia qualità della sua proposta artistica, il “personaggio”-Bene, la sua naturale eccedenza rispetto ai canoni e la sua debordante personalità calzavano a pennello anche ai media più popolari che ne hanno sancito il successo oltre le nicchie. Rimane il fatto che Carlo Quartucci, recentemente scomparso (31 dicembre 2019), è una di quelle personalità, operose e lunari che rischiano di rimanere ancora poco conosciute. Per rischiarare una figura centrale nella sperimentazione artistica e per riaprire il dibattito sulla sua maniera di intendere il teatro, ben venga, allora, un libro come Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959-1969 di Donatella Orecchia, studiosa che già ha dedicato approfondimenti a importanti artisti ed esperienze del teatro italiano (Eleonora Duse, Silvio D’Amico, Il Beat 72, solo per fare alcuni esempi).
CHI ERA CARLO QUARTUCCI
Quartucci, come dichiara Orecchia sin dal titolo, “stravede la scena”. Ci appare esatto l’uso di questo verbo per definire le pratiche e le poetiche di questo artista, che, figlio di un capocomico di una compagnia dialettale siciliana e di una prima attrice e canzonettista, sembra aver inscritto il teatro nel suo codice genetico. Stravedere inteso come “vedere oltre”, ma anche come “essere infatuato” del teatro a tal punto da farne una ragione di vita. Decliniamo il titolo a partire dal primo significato che gli abbiamo attribuito, vale a dire soffermandoci su quella capacità di superare i confini dei linguaggi e dei loro codici. Questa attitudine in Quartucci si incarna in una serena e puntuale inquietudine che caratterizza l’intero corso della sua carriera, ricostruita da Orecchia tenendo sempre fede al contesto storico-culturale in cui si sviluppa. È interessante notare quanto l’artista siciliano contribuisca a far coagulare nella sua progettualità e nelle sue attività numerose istanze delle Seconde Avanguardie e quanto, allo stesso tempo, vi insuffli un respiro del tutto personale: le modalità laboratoriali, tipiche della sperimentazione di quegli anni, vengono da lui spinte verso un grado massimo di tensione che rende gli spettacoli sempre aperti e in continua ridefinizione; il ruolo del regista viene manomesso, si allontana definitivamente dall’impostazione sia capocomicale che demiurgica e si configura come presenza effettiva sulla scena anche durante lo spettacolo per alimentare l’imprevedibilità dell’evento; l’uso della scrittura scenica, il cui emblema è l’epocale Zip Lap Lip Vap Mam Crep Scrap Plip Trip Scrap e la Grande Mam (1965) con Giuliano Scabia, è messo in questione dal successivo rifiuto anche di questa pratica, ritenuta insufficiente perché intesa come progetto registico predefinito; le arti figurative e plastiche si trasformano in dispositivo o meglio, come dice l’autrice del libro, in un “vocabolario” per le prassi teatrali, fino alla radicalizzazione dell’apertura verso altri linguaggi, ad esempio la collaborazione con Jannis Kounellis; la volontà di far piazza pulita degli stereotipi sul lavoro dell’attore concepisce e genera – grazie a Carla Tatò, compagna d’arte e di vita – la figura dell’attore-narratore, senza legami di necessità col personaggio, ma capace di tuffarsi nelle storie messe in campo per farle riverberare nelle comunità in cui vengono narrate.
QUARTUCCI E IL CAMION
Il racconto si fa denso nelle pagine dedicate a Camion, che meritano da parte di Orecchia una rifondazione del metodo di analisi per tener fede alla complessità dell’oggetto di studio. Il camion bianco con cui Quartucci imbocca la via della fuga dal teatro – altro topos del teatro di ricerca della stagione a cavallo tra la fine degli Anni Sessanta e i Settanta (Grotowski, il Living Theatre, l’Odin Teatret, Leo De Berardinis & Perla Peragallo, solo per fare alcuni nomi) – non è, infatti, una sorta di Carro di Tespi che porta in giro spettacoli nelle zone abitualmente non raggiunte e per questo non è possibile elaborare una teatrografia precisa. Camion è, invece, un complesso dispositivo per creare azioni, a partire dal semplice carico/scarico di materiali, ma anche per costruire comunità effimere, per affermare una politica del teatro senza la necessità dello spettacolo.
LA STORIA DI QUARTUCCI IN UN LIBRO
Conclude il libro un’appendice a cura di Rodolfo Sacchettini sull’esperienza radiofonica di Quartucci che contribuisce a delineare un’altra sfaccettatura del rapporto prismatico di questo artista con la sua arte. Se segnaliamo questa pubblicazione è perché essa svolge una duplice, appagante funzione. Da una parte, coloro che sono all’interno del discorso teatrale troveranno della straordinaria vicenda artistica e umana di Quartucci una ricostruzione che poggia su un metodo solido e lucido, in cui i documenti “ufficiali” sono costantemente contrappuntati da una lunga serie di fonti orali (conversazioni col regista e con gli attori, interviste, ricostruzioni). Dall’altra, invece, i curiosi e coloro che vogliono alfabetizzarsi potranno contare su una scrittura luminosa, mai pedante, che punta all’affabulazione e in cui l’io dell’autrice fa sempre irruzione, mostrando la sua appassionata adesione alla materia trattata. Il risultato è un brillante capitolo di quel grande romanzo, ancora da scrivere nella sua interezza, sul Nuovo Teatro Italiano.
‒ Mauro Petruzziello
Donatella Orecchia – Stravedere la scena. Carlo Quartucci. Il viaggio nei primi venti anni 1959-1979
Mimesis, Milano 2020
Pagg. 362, € 28
ISBN 9788857561073
www.mimesisedizioni.it
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