La vita come opera d’arte. Oscar Wilde 120 anni dopo
120 anni fa moriva Oscar Wilde, autore di un romanzo che ha fatto epoca e intelligente contraltare all’impostazione borghese di fine Ottocento. Qui ne ripercorriamo la storia.
Fosse nato cento anni più tardi, sarebbe diventato il leader della scena punk più intellettuale e sarebbe stato il capostipite di una letteratura socialmente impegnata che avrebbe spiegato gli Anni Ottanta meglio di Michel Onfray. Invece, nato nel 1854 nella Gran Bretagna vittoriana, impersonò come nessun altro il Decadentismo e subì la persecuzione di una società ipocrita. Ma, a 120 anni dalla scomparsa, Oscar Wilde resta un esempio inimitabile di eleganza e intelligenza.
OSCAR WILDE INTELLETTUALE GENTILUOMO
La sua tomba al Père-Lachaise è ancora oggi meta di pellegrinaggio. Dell’Inghilterra non avrebbe cambiato niente a parte il clima, ma non le risparmiò feroci e raffinatissime bordate attraverso le sue favole, i testi teatrali e l’unico romanzo, quel Ritratto di Dorian Gray che è ancora oggi la riflessione più profonda e drammatica sull’equilibrio fra arte e vita, e i suoi limiti etici. Scrittore, drammaturgo, saggista, polemista, Oscar Fingal O’Flahertie Wills Wilde (Dublino, 1854 ‒ Parigi, 1900) è stato fra gli ultimi rampolli di un’ideale dinastia di intellettuali-dandy che aveva avuto George Brummel come capostipite e Benjamin Disraeli come continuatore, e mise radici persino oltreoceano con Francis Scott Fitzgerald. Da parte sua, Wilde vi portò una carica umanistica leggibile come un attacco al Positivismo e all’aristocrazia del denaro. La sua fama letteraria, raggiunta anche con quel personaggio “bello e dannato”, gli permetteva libero accesso ai salotti vittoriani naughty Nineties (precursori di quelli americani dei roaring Twenties) fino a quando un’accusa e un processo per omosessualità, oltre a due anni di carcere, non lo spinsero fra i reietti costringendolo a espatriare in Francia. Non fu, il suo, un alzare bandiera bianca, perché, come lui stesso aveva affermato alcuni anni prima, era un tipo cui non piaceva affatto sapere quel che si diceva di lui in sua assenza, perché saperlo lo rendeva troppo presuntuoso.
Ma parte della grandezza della sua intelligenza stava anche nella calma e nella cortesia con cui sapeva affrontare le osservazioni di biasimo dei suoi avversari personali. Morì a Parigi il 30 novembre del 1900, “al di sopra dei suoi mezzi”, come ammise egli stesso dopo aver chiesto un ultimo bicchiere di champagne.
L’ARTE DEL LIBERO PENSIERO SECONDO OSCAR WILDE
“Non scrivo per compiacere le conventicole; scrivo per compiacere me stesso”. È sufficiente a spiegare l’indipendenza di un autore ogni pagina del quale racchiude arte e critica, poesia e prosa, filosofia e sociologia, realtà e utopia; ognuna è un piccolo capolavoro che dà voce alla libertà di pensiero, ma soprattutto dà forma e sostanza all’uomo Wilde. L’artificio, la creatività artistica sono (come in parte già teorizzato da Giacomo Leopardi), gli unici mezzi dell’individuo per affrancarsi dal suo destino di vittima della “natura matrigna”. E nel suo sollevare “gli occhi mortali incontra al comun fato”, Wilde è stato un acuto osservatore sociale che, come ogni artista, si esprimeva per paradossi. Per questo, Dorian Gray è la metafora di una condizione a cui l’ebbrezza allucinata della bellezza e della ricchezza possono condurre un essere umano; un testo ancora oggi non troppo conosciuto e compreso, dove comunque Wilde specifica che, fra l’individuo e l’arte, lui avrebbe sostenuto l’arte. Nella Londra vittoriana al più si poteva fumare l’oppio, ma nella complessa modernità del Novecento i paradisi artificiali si ampliano a dismisura, così come l’angoscia esistenziale, e il Decadentismo passa insospettatamente per il Grande Gatsby fino ad arrivare al ben più violento e disturbato Patrick Bateman immaginato da Bret Easton Ellis in American Psycho.
In estrema sintesi Wilde si mantiene a metà fra l’edonismo (non ancora reaganiano) e la leggerezza dell’essere, spingendo il primo al suo massimo e mantenendo l’altra in uno stato di dispiaciuta utopia, che si avverte in particolare nelle favole, intrise di una disperata dolcezza, legata qua e là a tratti inconsciamente biografici. E infine, con la sua Salomè, scritta a Parigi nel 1891 appositamente per la sensualità di Sarah Bernhardt, Wilde consegna ai posteri un nuovo mito laico della figura altrimenti biblica; pensata nel contesto della società vittoriana scossa dalle Suffragette ma dove la violenza sulle donne era ancora molto diffusa, la ballerina di evangelica memoria diventa il simbolo di metaforico riscatto dal martirio quotidiano per tante donne, in Gran Bretagna e altrove.
TRA I PRERAFFAELLITI E L’ART NOUVEAU
Le atmosfere letterarie, così come l’atteggiamento, di Wilde hanno un duplice ambito artistico: da un lato, i pittori della scuola preraffaellita, che cercavano di raggiungere la sintesi fra vita, arte, e bellezza, recuperando la tradizione antica. Lo stesso scrittore vorrebbe rompere con la modernità, che in quella fine d’Ottocento significa civiltà industriale, urbana e materialista. In comune con Dante Gabriel Rossetti, Frank Bernard Dicksee, e gli altri preraffaelliti, Wilde ha la descrizione, quasi maniacale, dei particolari estetici, fondamentale per fermare sulla tela (e sulla pagina) le suggestioni raffinate di un’eleganza senza tempo. Dall’altro lato, troviamo invece l’Art Nouveau di Aubrey Beardsley, colui che Wilde definì “un uomo dalla faccia come un piatto d’argento e con capelli verdi come l’erba”. Influenzato dal Giapponismo, influenzò a sua volta il Simbolismo e la Secessione. I temi che trattò erano la decadenza, la morte e l’erotismo esplicito, il tutto visto in una chiave decisamente “sopra le righe”. Esattamente quanto, in fondo, aveva fatto Wilde scrivendo Salomè per le illustrazioni della quale pensò appunto a Beardsley. Dando corpo alle zone più oscure dell’animo umano, mostrando la sensualità del vizio e il dominio delle pulsioni, esprimeva al meglio quella che era la critica di Wilde all’immobilismo della società patriarcale.
LA SENSIBILITÀ DI UN GENIO
La modernità di Oscar Wilde è dimostrata dall’interesse che il suo Decadentismo suscitò negli Anni Sessanta in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, gli stessi Beatles e Rolling Stones lo omaggiarono in diversi modi, sia nel vestiario, sia indirettamente con alcune canzoni.
A lui hanno guardato, più o meno direttamente, Francis Scott Fitzgerald, Ernest Hemingway e Truman Capote; il già citato Ellis, anche per le vicende personali, può invece essere considerato una sua “controfigura” contemporanea.
Di Wilde manca la raffinata intelligenza, legata a una sensibilità sempre meno comune anche nel mondo dell’arte. L’aristocrazia lo frequentava soltanto per quelle pubbliche relazioni di cui era maestro, ma in realtà le sue simpatie si rivolgevano altrove, come affermò egli stesso: “Le sole persone con le quali ora mi interesserebbe di trovarmi sono gli artisti e coloro che hanno sofferto: quelli che sanno cosa sia la bellezza, e quelli che sanno cosa sia il dolore: nessun altro mi interessa”. E, come tutte le persone veramente intelligenti, Oscar Wilde conosceva il valore dell’educazione, ed era una persona fondamentalmente buona, uno che, per citare Lucio Dalla, “ruberebbe anche la luna se la deve dare a te”. E, in fondo, ha davvero preso la luna e l’ha portata in terra, ha scritto favole meravigliose che, se fossero fatte leggere ai bambini, contribuirebbero alla loro crescita morale e intellettuale, e ha mostrato il modo di guardare le stelle anche se immersi nel fango.
Si è liberi solo rimanendo se stessi. E Wilde lo rimase fino in fondo, senza mai piegarsi all’ipocrisia.
‒ Niccolò Lucarelli
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