Essere collezionisti oggi. Parola a Hubert Neumann, inventore dell’Aftermodernism
Classe 1931, originario di Chicago, Hubert Neumann è il deus ex machina del ciclo di mostre avviato nel 2019 presso la galleria Mucciaccia Contemporary di Roma e giunto oggi al secondo capitolo. Una serie di doppie mostre personali che innescano un dialogo fra due artisti inclusi nella poderosa raccolta del collezionista americano, accomunati da una visione del mondo sintetizzata dallo stesso Neumann con il termine Aftermodernism. Ne abbiamo discusso con lui.
Secondo il collezionista Hubert Neumann, la svolta non-modernista avvenuta dopo gli exploit di Keith Haring e Jean-Michel Basquiat e messa concretamente in pratica da Jeff Koons non è un fattore trascurabile, ma l’incipit di una nuova epoca, ed estetica, da lui stesso definita con il termine Aftermodernism. Proprio in quest’area si collocano Benjamin Edwards e Tom Sanford, artisti presenti nella sconfinata raccolta di Neumann – composta da oltre 2600 opere, che spaziano dalle Avanguardie al contemporaneo stretto – e oggi esposti presso Mucciaccia Contemporary a Roma, nell’ambito di un ciclo espositivo frutto della collaborazione tra la galleria capitolina e il collezionista americano. All’insegna, ovviamente, dell’Aftermodernism.
INTERVISTA A HUBERT NEUMANN
Partiamo dal concetto di Aftermodernism, che ha anche ispirato la serie di mostre a Roma. Qual è la definizione che dà a questa parola? Quando e perché ha deciso di usarla per la prima volta?
Ho scoperto il termine Aftermodernism in una recensione che lessi su Karen Kilimnik, un’artista americana molto presente nella nostra collezione. La riflessione si è poi evoluta dal momento che non ero soddisfatto dalla parola Incomplete, il titolo di una mostra di opere della nostra collezione al Chelsea Art Museum di New York. Come prima cosa ho amato il modo in cui la parola AFTER in merito al Modernismo faccia riferimento sia alla maniera/stile di un artista sia al periodo storico. Questo doppio significato porta a lasciare aperta la categorizzazione del termine. Come seconda ragione c’è la definizione obliqua e ambigua di arte moderna (il filosofo Bruno Latour sostiene che il modernismo non sia mai esistito). Poi c’è un grande senso di ironia. Inoltre questa parola non è affatto cinica, anzi, è molto ottimistica. Aftermodernism definisce il nostro momento storico ed esprime l’infinito.
Come è iniziata la collaborazione con la galleria Mucciaccia Contemporary?
È stata un’evoluzione lenta. Circa cinque anni fa per caso Deb [Debra Purden, compagna di Neumann, N.d.R.] e io, passeggiando per Roma, arrivammo nella piazza dove si trova la loro galleria e fummo incuriositi dal perché avessero dedicato una mostra a Pistoletto. Mi presentai quindi a Max [Massimiliano Mucciaccia, fondatore della galleria nel 2006, N.d.R.], spiegando che avevamo una collezione di arte contemporanea che includeva anche Pistoletto. Max, come farebbe qualsiasi gallerista serio, mi illustrò i suoi ambiti di interesse chiedendomi cosa pensassi del suo lavoro. Sono molto onesto nelle opinioni e davanti a questa domanda così diretta fui costretto a rispondere quanto poco fossi interessato al suo modo di vedere di quel momento. Il giorno successivo Max ci sorprese, portandoci in giro per Roma e facendoci conoscere studi, artisti e spazi espositivi. A fine giornata, alla stessa domanda del giorno precedente, diedi la medesima risposta (forse dovreste chiedere a lui quale fu l’impressione che gli feci!).
Poi cosa accadde?
Un anno dopo tornammo a Roma e fui entusiasta perché la Galleria Mucciaccia aveva aperto un nuovo spazio da utilizzare esclusivamente per l’arte contemporanea. Ovviamente Deb e io passammo molto più tempo con loro (compresa Giulia [Abate, N.d.R.], che davvero è stata una grandissima aggiunta!) e si instaurò un senso di fiducia reciproca. Questo sentimento si è rafforzato grazie alle impressioni positive che abbiamo avuto conoscendo i loro vari partner e grazie ai loro ripetuti viaggi a New York ‒ compiuti per visitare le nostre due case ricolme di opere d’arte ‒, che hanno permesso a Max di capire come la nostra collezione sia viva e in continua evoluzione.
Tutto ciò si aggiunge al legame decennale tra la sua famiglia e l’Italia.
Dagli Anni Cinquanta la nostra famiglia ha avuto un profondo legame con l’arte italiana, mio padre era davvero interessato all’Arte Povera e collezionava molti di questi autori. Ogni anno soggiornavamo all’Hotel Orologio di Abano Terme, che all’epoca era meta di artisti.
Roma è sempre stata una dura sfida per l’arte contemporanea, ma ha un enorme potenziale. Tutti noi abbiamo capito come la nostra collaborazione rappresentasse un’opportunità per sviluppare un programma artistico comune che potesse essere esposto nelle loro numerose gallerie. Il resto è storia. Lavorare con Max e Giulia si adatta perfettamente alla nostra filosofia e al nostro senso di responsabilità nel condividere con il mondo l’arte che amiamo.
HUBERT NEUMANN E IL COLLEZIONISMO
La sua storia di collezionista è affascinante e strettamente connessa alla figura di suo padre, che era collezionista a sua volta. Si ricorda quando e perché ha deciso di diventare un collezionista?
La mia spinta a collezionare arte non è una scelta voluta. Non c’è stato un momento preciso per me, era nel mio DNA da sempre. Da bambino collezionavo francobolli e scatole di fiammiferi, mentre mio padre collezionava libri, argenti e porcellane prima di cadere nel vortice del collezionismo d’arte.
Mio padre e io abbiamo avuto un rapporto profondo e questo ci ha portato ad acquistare artisti all’epoca non quotati, quindi siamo stati dei precursori in un certo senso. Lui diceva sempre: “Non colleziono l’arte, è l’arte che sceglie me“. Ovviamente è da lui che ho imparato tanto sull’estetica, le responsabilità, l’integrità, la trasparenza. Una delle lezioni più importanti che ho appreso da mio padre è stata quella di aspettare il “caso esemplare”, che crea dei collegamenti con le opere già presenti nella collezione senza risultare ridondante. Mi diceva: “Sii paziente e aspetta il pezzo unico”. Poi soprattutto ho imparato che bisogna essere coraggiosi e indipendenti, non ascoltare gli scettici.
A cosa allude di preciso?
Mi sono scontrato con preconcetti e falsi miti: ad esempio l’opinione diffusa che Picasso, poiché era un comunista, ingannasse gli stupidi capitalisti avidi. Oppure, molti anni dopo, il fatto che la critica vedesse in Jeff Koons solo un caso di promozione pubblicitaria nel mondo dell’arte (critica alla quale ho risposto che anche Michelangelo fu un artista promosso dal Papa, eppure è ancora considerato uno dei migliori). Per ulteriori approfondimenti, rimando a un’intervista con Tom Sanford nel podcast Bad at Sports, episodio 276, 5 dicembre 2010.
Però ci può raccontare qualche episodio di vita vissuta con suo padre nel solco della comune passione per il collezionismo.
Ho scelto artisti e opere specifiche con mio padre a partire dal 1948 circa. Nel 1952, con la mia famiglia, andai in Europa e incontrammo, per citarne alcuni, Léger, Kahnweiler, Maeght e Pierre Loeb a Parigi. Marcel Duchamp, Alfred Barr, Sidney Janis, Miró, Pierre Matisse, Franz Klein e Rothko a New York.
Ha detto che “un grande collezionista è più raro di un grande pittore”. Cosa serve per essere un grande collezionista?
Quella era una citazione di Renoir, che ritengo essere assolutamente vera. Alla fine sarà la storia a decidere. Credo che il collezionismo contemporaneo sia il più impegnativo perché nella maggior parte dei casi trovare e collezionare il “grande pezzo” non è possibile se non si è disposti a fidarsi del proprio istinto e del proprio intelletto. Tuttora sono perseguitato dai miei peccati di omissione, su cui cerco di non stressarmi per via dell’aspetto economico.
Ha detto anche che “non vede molti buoni collezionisti”. Dal suo punto di vista, a cosa è dovuta questa mancanza?
A diversi problemi: vedo molti collezionisti che hanno una grande passione per un periodo di tempo limitato ma che poi, per qualche motivo, quando quel momento cambia, e succede sempre, non sono più in grado di guardare e andare oltre, ma continuano a muoversi nella stessa direzione.
Un esempio è un grande collezionista modernista che insiste nella direzione di quello che io chiamo “Tardo Modernismo”. Se un collezionista usasse il principio dell’arte che cambia radicalmente il vocabolario visivo, come è stato discusso e fatto da Barnes o Ambroise Vollard, la transizione sarebbe più facile.
Inoltre ci sono molti “accumulatori” che non sono collezionisti seri. Problemi di investimento, ricerca di prestigio sociale o desiderio di dare lustro alla propria immagine sono alcune delle motivazioni che li spingono e che poi, secondo me, a lungo andare svaniscono e, nella maggior parte dei casi, quello che rimane è solo la magia degli oggetti.
COLLEZIONISMO E MERCATO
Come sceglie le opere d’arte da inserire nella sua collezione? Qual è la sua strategia?
Mi piace dire che è l’amore. Ma c’è molto di più. Il punto iniziale è lo spazio e anche la sensazione che l’artista non lavori all’interno di una “scatola”. Adotto il medesimo approccio ravvisabile in altri linguaggi, come Lynch nel cinema, Badiou in filosofia, Coetzee e David Foster Wallace in letteratura.
Ci sono anche questioni soggettive, i miei standard di qualità, di innovazione e il dialogo con le altre opere presenti nella collezione, e infine le mie decisioni, che sono davvero folli viste a posteriori e che non sempre capisco. Mi meraviglio e mi stupisco sempre quando gli altri condividono le mie passioni.
Quali sono la prima e l’ultima opera che ha scelto?
La prima è stata una stampa originale di Miró, che abbiamo ancora in collezione, ma non c’è un’ultima opera. Negli ultimi mesi abbiamo aggiunto dieci nuovi dipinti alla raccolta e non intendiamo fermarci.
Lei dice che un collezionista non deve per forza seguire le regole del mercato. Cosa pensa dell’odierno trend del mercato dell’arte?
Non dirò mai come dovrebbero agire gli altri collezionisti, io gioco secondo le mie regole. Mi capita spesso, tra le opere di un determinato artista, di scegliere quelle che più amo e che sento potrebbero meglio legarsi con le opere già presenti nella mia collezione, che siano dello stesso artista o di altri. Questo è molto importante.
In alcuni casi mi è capitato di dire all’artista o al mercante che una tale opera dovrebbe essere acquistata da un museo. Alcune volte seguono il mio consiglio, altre no, e allora agisco autonomamente senza dire al mercante che, una volta acquistata l’opera, la doneremo a un museo. C’è un filmato in cui Mark della Kravets Wehby Gallery di New York dice: “Le nostre decisioni non hanno nulla a che fare con il mercato o il valore o anche la popolarità di un determinato artista ‒ è solo che sono buoni lavori“. Sono pienamente d’accordo.
Nell’area del contemporaneo, nel momento del nostro acquisto iniziale le opere non hanno ancora un mercato.
Crede che il ruolo del collezionista sia destinato a cambiare durante, e dopo, la pandemia che stiamo vivendo?
Penso che tutti i nostri ruoli e il panorama generale cambieranno. Le fiere d’arte, le visite ai musei, le mostre della nostra collezione, i nuovi vocabolari estetici: andrà tutto nella direzione di quello che sono convinto sarà un nuovo Rinascimento. Sono molto fiducioso e ottimista. Ci sarà una classe più ampia di collezionisti, artisti, galleristi, curatori, critici e filosofi più giovani e più istruiti che si relazioneranno con ciò che abbiamo fatto per decenni.
Credo che il cambiamento principale sarà la mole di informazioni in nostro possesso, sempre più grande: Internet permette di trovare miriadi di informazioni in una nuova entusiasmante dimensione, che porta a una maggiore trasparenza. Usiamo Instagram costantemente per condividere i nostri punti di vista.
Ritengo anche che ci saranno nuovi approcci e collaborazioni sempre più avventurosi, anche perché stiamo lavorando prevalentemente con scambi non verbali: il solo iPhone connette miliardi di cervelli e il potere delle immagini visive non è mai cresciuto a questo ritmo, semplicemente incredibile!
‒ Arianna Testino
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