Diario della Pangea. Il Teatro Sotterraneo scrive il suo dizionario
Prende le mosse dalle “parole intraducibili” lo spettacolo di Teatro Sotterraneo sospeso a causa della pandemia ma portato in scena in maniera diversa grazie a un racconto audiovisivo.
Un’arca di Noè per salvare e proteggere parole intraducibili, vocaboli che nascono nella cultura linguistica da cui sono stati prodotti, vivi e soprattutto non declinabili in altre lingue. Parole come tsundoku che in giapponese significa “impilare un libro appena comprato insieme agli altri libri che prima o poi leggerai”; o parole come ubuntu che in bantu significa “Io posso essere io solo attraverso di voi e con voi” sono protagoniste del nuovo progetto di Teatro Sotterraneo. Doveva essere uno spettacolo il Dizionario illustrato della Pangea, ma causa DPCM il debutto non è mai avvenuto, così per una settimana di fine novembre, nei giorni che dovevano essere di replica su Ert On Air, è andata in onda Pangea miniserie, un racconto audiovisivo di quindici minuti curato dal coreografo e filmmaker Jacopo Jenna.
Ogni puntata una parola e per ogni parola un’intervista a un madrelingua e al cast della compagnia composto da cinque attori di Sotterraneo (Sara Bonaventura, Claudio Cirri, Lorenza Guerrini, Daniele Pennati, Giulio Santolini), dal drammaturgo Daniele Villa e da quattro attori della Compagnia permanente di ERT (Michele Lisi, Paolo Minnielli, Maria Vittoria Scarlattei, Cristiana Tramparulo).
Un modo per continuare a tenere vivo il dialogo e per condividere con il pubblico una traiettoria, in attesa di portare lo spettacolo dal vivo sul palcoscenico. Di questa ricerca abbiamo parlato con il Teatro Sotterraneo.
Da dove prende le mosse Il dizionario illustrato della Pangea? Da quale necessità? Creare un’arca di Noè di parole che rischiano l’estinzione o scovare una smagliatura tra significato e significante?
L’intuizione di mettere in scena un dizionario è venuta scoprendo l’esistenza delle cosiddette “parole intraducibili”: vocaboli che nascono in seno a una lingua ma che non possono essere tradotti se non attraverso intere frasi. A volte queste parole rispondono semplicemente ai meccanismi agglutinanti di alcune lingue (il tedesco accorpa fremd e sich schämen in fremdschämen per dire “vergognarsi per conto di un altro”); altre volte sono termini culturospecifici che ci rivelano determinati aspetti di un territorio e della sua comunità (il finlandese usa il cammino delle renne come unità di misura nel termine poronkusema); altre volte ancora sono vocaboli che appartengono a lingue in via d’estinzione per cui è diventato difficile darne un’interpretazione certa. Cercando queste parole, collezionandole, pensando a modi per tradurle in azione sul palco, abbiamo cercato di immergerci nello studio del linguaggio, inteso come caratteristica nucleare dell’essere umano e primo strumento con cui descriviamo – e a volte creiamo – la realtà di cui siamo parte.
Le parole di Pangea possono introdurre una nuova forma di comunicazione o fondare un nuovo stare nello spazio, nella società?
Le parole che abbiamo raccolto per pensare la nostra personalissima Pangea sono una risorsa utile per ripensare la triangolazione spazio-comunicazione-società. Viviamo un tempo in cui ogni problema, anche quello apparentemente più locale, ha ripercussioni e collegamenti su scala mondiale e può essere quindi risolvibile solo con azioni coordinate a livello globale. La rete ha cominciato a fondere gli immaginari collettivi, le persone hanno accesso a consumi culturali prima irraggiungibili. Non è più possibile limitarsi a “the one story”, come spiega in modo cristallino in una TED la scrittrice nigeriana Chimamanda Ngozi Adichie. Le “parole intraducibili” sono un segno di enorme biodiversità linguistica e ricchezza di punti di vista. Il linguaggio è lo strumento più immediato che abbiamo per riposizionarci come civiltà nel bel mezzo della complessità che stiamo attraversando, contrapponendoci già col lessico agli anacronismi imbarazzanti di sovranisti e puristi di ogni genere e usando le parole con più consapevolezza, anche nel quotidiano.
PAROLE E IMMAGINI SECONDO TEATRO SOTTERRANEO
Le parole creano cose e idee o il processo è al contrario, prima le immagini e le esperienze e poi le idee?
Certo meglio di me potrebbero rispondere socio-linguisti e antropologi. Tuttavia, secondo l’ipotesi Sapir-Whorf, a detta di Noam Chomsky – ma possiamo menzionare analoghe posizioni in realtà già in Varrone nel I secolo a.C. ‒, la domanda ci accompagna da millenni e forse la risposta è talmente complessa da non poter essere univoca. Filtriamo ogni esperienza di realtà attraverso il linguaggio, quindi saperlo usare e averne consapevolezza è di vitale importanza per la qualità delle azioni che compiamo in relazione agli altri e all’ambiente circostante. Ovunque cominci e qualsiasi cosa sia la realtà oggettiva, il linguaggio è lo strumento principale con cui noi diamo un senso alle cose del mondo. Siamo una specie di onomaturghi, cioè denominiamo le cose. E una volta che le abbiamo nominate, le vediamo meglio, anzi a volte esse prendono forma solo dopo averle nominate. Per questo è inquietante pensare che ogni settimana una lingua scompare e che nel giro di un secolo il 50% delle lingue esistenti sarà scomparso: con ognuna di esse scompare il patrimonio linguistico di una comunità di parlanti con la loro specifica visione del mondo e dell’ecosistema cui si sono adattati nel tempo, non è una perdita da poco.
Ricordo spettacoli come Post-it. Come siete arrivati alla parola e che evoluzione avrà nella vostra ricerca questo lavoro?
Non abbiamo mai fatto uno spettacolo completamente “muto”, anche in Post-it la parola emergeva fra un’azione e l’altra. L’idea però è sempre stata quella di allontanarci da un teatro di matrice letteraria, con un testo che precede la creazione dello spettacolo, con un impianto narrativo e dei personaggi che sviluppano un percorso psicologico, senza per questo rinunciare al linguaggio come risorsa in sé. Nei nostri lavori la parola è una parte (vitale) della sintassi complessiva dello spettacolo, serve come strumento chirurgico quando vogliamo assolutamente dire qualcosa o, paradossalmente, quando vogliamo far risaltare un non detto.
COMUNICAZIONE E PANDEMIA
A che punto è in generale la comunicazione oggi? Andiamo verso un processo di semplificazione? Siamo nei frammenti e nelle briciole lasciate da un logorante eccesso comunicativo?
Siamo nel pieno della fase febbrile di un’enorme rivoluzione tecnologica e vedremo quando e come ne usciremo. Al momento siamo immersi nel rumore di fondo, la condivisione di una base minima di realtà e competenza – fondamentale per ogni democrazia – è sotto scacco come mai fino a ora. Lo stesso concetto di ignoranza ha cambiato significato, spostandosi dal non-sapere-le-cose al non-saper-distinguere-tra-le-informazioni-disponibili. Di nuovo, la competenza metalinguistica, ovvero conoscere il linguaggio e i suoi meccanismi intrinseci, è un’arma fondamentale per provare a emanciparsi dal rumore. Lo studio costa fatica, ma fornisce anche la giusta calma e razionalità per non perdersi completamente. Su questo fronte sono molto utili i Dieci suggerimenti per l’Antropocene della socio-linguista Vera Gheno, di cui citerò solo il primo e l’ultimo (gli altri sono facilmente reperibili online): Riconosci i limiti della tua conoscenza, Quando serve, scegli il silenzio.
Trovo interessante che il vostro lavoro non sostituisca ma affianchi lo spettacolo dal vivo. Questa situazione emergenziale è per certi aspetti irripetibile e si presenta all’artista come un’occasione per riflettere in profondità soprattutto sul “dopo”.
Avremmo dovuto debuttare il 17 novembre con lo spettacolo Dizionario illustrato della Pangea, ma i teatri ora sono chiusi al pubblico perciò il nostro spettacolo è stato “sospeso”. Nel frattempo abbiamo scelto di presentare Pangea miniserie, cinque puntate che sono altrettanti brevi documentari su cinque parole intraducibili estratte dalla nostra raccolta. Per questa deviazione sull’audiovisivo è stata fondamentale la collaborazione col coreografo e videomaker Jacopo Jenna che ha mescolato i nostri materiali con pezzi di film, serie tv, opere d’arte visiva, trasformando queste parole in piccole centrifughe d’immaginario collettivo. Questo è un periodo in cui noi, come compagnia, proviamo a trasformare obblighi e limitazioni vigenti in possibili linee di ricerca: lo spettacolo è pensato con distanziamento e mascherine, col video ci stiamo misurando sempre più spesso, il live-streaming ha un potenziale enorme. Se non possiamo fare quello che abbiamo sempre fatto, direi che provare a fare tutti qualcosa che finora non abbiamo mai fatto, potrebbe essere un’ottima strategia di risposta alla pandemia.
‒ Simone Azzoni
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