Una mostra che va ascoltata. Giovanni Termini a Prato

Quattro potenti “Contrappunti” di Giovanni Termini per ripensare e riconsiderare, a Prato, gli spazi esterni della settecentesca Villa Rospigliosi.

Il nuovo progetto di Giovanni Termini (Assoro, 1972) organizzato negli spazi esterni di Villa Rospigliosi e curato da Riccardo Farinelli, mostra tutta la forza magnetica di un pensiero che non vuole ingombrare o stravolgere un locus amoenus già di per sé fortemente caratterizzato da un entusiasmante giardino “formale” che rapisce lo spettatore, quanto piuttosto il desiderio di lavorare, punctum contra punctum, combinando insieme (e davvero magistralmente, eccellentemente) diverse melodie.

I CONTRAPPUNTI DI GIOVANNI TERMINI

Termini ci presenta oggi Contrappunti, quattro interventi d’urgenza che si inseriscono nello spazio come delicatissimi accenti, come timbri, come diastemi autonomi che però dialogano e si mescolano e si intersecano alla polifonia dell’ambiente circostante: al materiale preesistente l’artista attua delle piccole integrazioni, quasi dei commenti a margine, delle tracce garbate che ne cambiano il volto iniziale e che vogliono rispettare l’ambiente, assecondarlo, portarlo a una più alta strutturazione linguistica.
Termini è un’artista d’intervento: interviene nello o sullo spazio per aggiungere o togliere o spostare qualcosa e dunque per modificarlo impercettibilmente, per renderlo spiazzante, per giocare con lo spettatore in una sorta di labirinto visivo delle probabilità.
Costruttore e corruttore di immagini o appunto di spazi (è lo spazio che a lui interessa come materia prima da plasmare), l’artista propone con questo suo nuovo appuntamento un dispositivo maturo, magistrale dicevamo, che trasforma l’intero giardino in una pagina di quaderno su cui esercitare delle forze, delle tracce minime ma efficaci, degli innesti controllati, direi quasi filosofici. Tutto il lavoro si muove, a ben vedere, sul doppio asse dell’osservazione e dell’azione: da una parte l’artista assume un atteggiamento di stress emotivo (osserva analiticamente lo spazio circostante, a volte anche per recuperare dallo stesso gli strumenti e gli ingredienti primari da cui partire – abbiamo visto Termini farlo in più occasioni, e con una carica adrenalinica eccezionale, come un segugio che fiuta la preda e non la molla se non dopo averla stanata), dall’altra entra in campo con una serie di operazioni preziose e potenti e discrete.

Giovanni Termini, Libera di scegliere se restare, 2020, acciaio, resina e galvanica, installazione. Photo Michele Alberto Sereni

Giovanni Termini, Libera di scegliere se restare, 2020, acciaio, resina e galvanica, installazione. Photo Michele Alberto Sereni

LE OPERE DI GIOVANNI TERMINI

Come un compositore che si muove in punta di piedi per sfiorare il paesaggio e invitarci ad ascoltarlo con i suoi quattro contrappunti, Termini parte ora da un primo intervento, Sulla circonferenza (2020), con cui si prende cura del prato, ma con un irrigatore da campi che spiazza e che rimanda alle nozioni geometriche di traiettoria e spostamento: un corpo è in movimento se cambia la sua posizione nello spazio al trascorrere del tempo, rispetto a un corpo rigido supposto arbitrariamente in quiete. In questo primo lavoro, accanto agli spruzzi (ai punti) di un corpo stabile che ruota intorno a un asse per disegnare un cerchio effimero, è presente anche un altro oggetto estraneo (apparentemente estraneo). Si tratta di un ombrello, verde come il prato, abbandonato come l’aratro in mezzo alla maggese (Pascoli), che crea un rapporto di partecipazione con il luogo in cui si trova – è infatti un indistruttibile e costosissimo ombrello da pastore toscano – e pone al centro dell’attenzione la cura del sé poiché il suo proprietario (il pastore) lo vede come un arnese di protezione e conforto, come uno strumento quotidiano, come un compagno di strada silenzioso. Anche nel secondo contrappunto (Privata, 2020) Termini utilizza un materiale tipicamente toscano, e cioè un drappo cardato – la cardatura è una tecnica di riciclo nata a Prato a metà Ottocento e consiste nella rilavorazione di lane usate (vecchi indumenti o scarti di produzione) – che non solo pone luce sulla tradizione ma anche, ironicamente, sul ratto di Ganimede. Nel giardino è infatti presente una statua del giovane rapito per la sua bellezza da Zeus metamorfosato in aquila: e l’artista fa scendere da un architrave presente nel giardino una sorta di gelosia, una custodia di segreti impronunciabili, un drappo fucsia evocativo al di là del quale crea una sorta di alcova, uno spazio protetto dove l’occhio vigile di Era non può raggiungere le marachelle del marito.
C’è poi, in una fontana semicircolare, una statua di Eros sulla cui coscia Termini applica un rivestimento d’acciaio lucidato a specchio – questo terzo contrappunto si chiama Libera di scegliere se restare (2020) – dove un qualsiasi sentimento di restauro lascia il posto alla pura e semplice volontà di rivitalizzare qualcosa mediante una protesi visiva, una sottolineatura necessaria a riconsiderare le cose.
Dei quatto contrappunti Fine giornata (2020) è l’ultimo: ed è la proiezione del Casotto (1977) di Sergio Citti, un film italiano che parla dell’Italia di ieri e forse di sempre a cui Termini si era già ispirato per realizzare Riversa (2016), puntando però l’attenzione illo tempore su una serie di tematiche quali la falsità e l’ambiguità dell’uomo contemporaneo. Installato nella vecchia rimessa della villa, un televisore, quando scende la sera (l’opera è percepibile soltanto all’imbrunire), fa trasparire la sua luminosità attraverso i vetri smerigliati di questo fatiscente ricovero che forse un tempo ospitava la servitù (nella quiete del notturno si sentono dei brusii sempre più distinguibili). Qui l’artista scolla i due linguaggi principali del film (il visivo e il sonoro), lascia fuori lo spettatore che può soltanto immaginare, farsi suggestionare dalle voci e dai suoni, provare a percepire i volti e i gesti degli attori, leggere tra le righe il variegato campionario di umanità che si concentra a Ostia, nel “casotto” di uno stabilimento balneare.

LA METODOLOGIA DI GIOVANNI TERMINI

Rigoroso in ogni sua mossa e davvero puntuale, Termini si muove per dispiegare nei suoi Contrappunti un energico racconto circolare, ma anche per mostrarci con questa sua personale a cielo aperto una metodologia in cui va a privilegiare la via retorica della trasposizione e in cui l’osservazione segue l’azione: ma sempre con l’attenzione di non aggiungere nulla al grande racconto del giardino, piuttosto lavorando con piccoli tocchi che ci fanno capire l’importanza dimostrata dall’artista non al “saper leggere” ma al saper “leggere tra le righe”.

Antonello Tolve

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Antonello Tolve

Antonello Tolve

Antonello Tolve (Melfi, 1977) è titolare di Pedagogia e Didattica dell’Arte all’Accademia Albertina di Torino. Ph.D in Metodi e metodologie della ricerca archeologica e storico artistica (Università di Salerno), è stato visiting professor in diverse università come la Mimar Sinan…

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