Moda e Generazione Z: green machine, resale e seconda mano

Riutilizzo e processi green per il riciclo degli indumenti sono gli obiettivi che stanno orientando le scelte in fatto di moda da parte della Generazione Z. Ma quali sono le reazioni dei produttori?

Monki, il marchio di abbigliamento femminile creato dal colosso svedese H&M come ambito d’acquisto per la GenZ, ha messo in vendita lo scorso mese una capsule collection prodotta utilizzando fibre riciclate provenienti da un processo battezzato Green Machine. La capsule ‒andata subito esaurita – comprendeva solo 120 pezzi per due modelli: una felpa con cappuccio da 40 € e pantaloni della tuta abbinati da 20. Sono stati evitati inoltre occhielli in metallo, punte delle coulisse in plastica e altri componenti che complicano i processi di smistamento dei capi a fine vita.
Monki però costituisce solo una frazione dell’impero di H&M: 124 negozi in 19 mercati rispetto ai 4.455 negozi di H&M in 74 mercati. Il gigante del fast fashion ha dunque sviluppato una tecnologia utile per riciclare indumenti in cotone e poliestere, fibra mista utilizzata in gran parte dei capi in commercio. Green Machine è il primo processo in grado di separare queste fibre su larga scala e potrebbe dunque rendere il riciclaggio da capo a capo una realtà molto più ampia dell’attuale (oggi avviene per quantità non superiori all’1%).

GREEN MACHINE DI H&M

La messa a punto di questa tecnologia da 5,8 milioni di euro nasce dalla collaborazione iniziata nel 2016 tra H&M e l’Hong Kong Research Institute of Textiles and Apparel. Il processo funziona utilizzando calore, acqua e meno del 5% di una “sostanza chimica verde biodegradabile” che i portavoce di H&M dichiarano essere acido citrico. Sempre secondo quanto dichiarato, il poliestere rigenerato ottenuto è economicamente sostenibile (elemento cruciale per la sua adozione) e H&M sarebbe disponibile a concedere l’utilizzo del processo gratuitamente ad altre società.
E tuttavia Green Machine non è affatto la soluzione definitiva per i giganteschi problemi che la produzione di abbigliamento porta con sé. Anche il poliestere rigenerato rilascia microfibre sintetiche durante i lavaggi, contribuendo all’inquinamento marino da plastica che mette a dura prova gli oceani del nostro pianeta. E Green Machine, senza una strategia concordata dall’intero settore (che al momento non ne ha alcuna), è desinata a incappare negli stessi ostacoli ‒ mancanza di infrastrutture, investimenti finanziari e legislazioni inadeguate ‒ in cui inciampano tutti i cambiamenti sistemici di cui ci sarebbe urgente bisogno.
Difatti H&M continua a essere bersaglio delle accuse di associazioni ambientaliste di ogni parte del mondo. Gli sforzi per migliorare lo smaltimento sono benvenuti, ma il sospetto che si tratti di un diversivo per tenersi lontano dal cuore del problema rimane. Che è quello di produrre meno e insieme migliorare la qualità dei prodotti messi in circolazione in modo da renderli più durevoli nel tempo. Non esiste altra via praticabile: rallentare i consumi per allentare la pressione sulle risorse del pianeta è una strada obbligata, anche in considerazione del fatto che la popolazione globale in aumento è un trend che non accenna in alcun modo a diminuire. Tutto il resto è marginale.

Courtesy Duran Lantink

Courtesy Duran Lantink

DUE ESEMPI VIRTUOSI

Se i grandi marchi (fast fashion o “lusso” indifferentemente) glissano, registriamo il proliferare di piccole etichette dietro a cui ci sono creativi che il problema se lo pongono seriamente. È il caso della designer di calzature Ancuta Sarca, che a Londra si è fatta conoscere rielaborando sneaker Nike destinate alla discarica. Ha ottenuto grande attenzione su Instagram esaurendo quasi immediatamente le sue scorte. Immediatamente dopo sono arrivati i problemi legati al riordino. Nel Regno Unito non ci sono abbastanza deadstock Nike per soddisfare le richieste che le sono arrivate. Per questo ha dovuto scendere a compromessi: le calzature per la p/e 2021 le sta realizzando con tessuti riciclati ottenuti da fabbriche di calzature inglesi, i tacchi utilizzando materiali nuovi anziché deadstock.
Un altro designer a lavorare in questo modo è Duran Lantink ad Amsterdam. Lantink i suoi materiali li acquisisce riutilizzando articoli danneggiati o pezzi rimasti invenduti in dep store come Browns, Joyce e H Lorenzo. Sono nate così le shopping bag Louis Vuitton-Gucci, le calzature ibride Dr Martens-Dries Van Noten-Celine, e il cappotto Marni-Valentino-Gucci. Chi gli fornisce deastock cerca l’approvazione dei marchi prima che si metta al lavoro: Lantink, che è stato pure finalista del LVMH Prize nel 2019, solo occasionalmente ha incontrato resistenza. La sua è un’operazione quantitativamente limitata, da artigianato di lusso: i responsabili dei marchi interpellati devono aver pensato che fosse meglio finire in qualcuno dei suoi talking piece piuttosto che in uno spaccio per articoli off-price o peggio ancora in mostra in una discarica.

SALE IL TREND DEL RESALE

Se qualcuno pensava che si trattasse di un fenomeno generazionale e tutto sommato circostanziale, ecco le prime smentite. L’azienda di orologi di lusso Richard Mille (i prezzi oscillano tra le 70.000 e il milione di sterline e il tennista Raphael Nadal è tra i suoi testimonial più celebri) ha deciso di aprire tre nuove boutique di (suoi) orologi second hand: la prima nel quartiere Ginza a Tokyo, poi a Ngee Ann City a Singapore e infine a Mayfair a Londra. Quest’ultima ospiterà anche un team di specialisti per fornire consigli su come reperire, vendere o acquistare orologi. Ci si aspetta che il negozio attiri anche gli abituali clienti di Richard Mille, questi ultimi spesso collezionisti alla ricerca di stili esauriti. E non si tratta di una mossa isolata: altri brand stanno lavorando con siti web specializzati nel second hand: di recente Gucci ha seguito le orme di Burberry e Stella McCartney unendosi a The RealReal. Il resale è diventato difficile da ignorare durante la pandemia, e la particolare attitudine della GenZ per questo tipo di scambio gli ha fornito l’abbrivio definitivo.

Aldo Premoli

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Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

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