Il futuro della cultura sono nomi collettivi
Irene Sanesi analizza due strumenti che potranno essere utili nella gestione del post pandemia: la società benefit e le forme di co-progettazione pubblico/privato.
Se questa pandemia sta insegnandoci qualcosa, è che “tutto non tornerà come prima” e che piuttosto abbiamo bisogno di immaginare il nuovo, l’inedito.
Per farlo dobbiamo equipaggiarci e accogliere un approccio complesso, olistico, non riduzionista e controllare non solo la temperatura corporea quanto quella intellettiva e interiore. Con quale forma mentis ci poniamo? E nel nostro baule (termine più evocativo rispetto alla cassetta degli attrezzi del manager) quali strumenti abbiamo a disposizione?
Ho provato a immaginarne due, molto tecnici ma anche estremamente visionari e prospettici: la società benefit e le nuove forme di co-progettazione pubblico/privato.
LA SOCIETÀ BENEFIT
Del primo strumento, la società benefit, abbiamo già parlato proprio in questa rubrica: mi limito a ricordarne la valenza strategica, reputazionale e comunicativa; l’alterità rispetto a strumenti sicuramente più conosciuti quali la fondazione ma anche più costosi e probabilmente oggi non sempre attuabili e, il che non guasta, il tax credit del 50% relativo alle spese di costituzione o trasformazione. Diventare, ed essere, imprenditori benefit significa superare la logica del mecenatismo occasionale (quello, per intendersi, delle sponsorizzazioni e delle erogazioni liberali, art bonus in primis) per abbracciare una visione stakeholder oriented e non solo shareholder focused.
“Parole come partenariato e co-progettazione nascono plurali (ricordate quando a scuola ci insegnavano in analisi grammaticale i nomi collettivi come folla, gregge, mandria, squadra?): perché non solo ‘tutto non tornerà più come prima’, ma solo ‘insieme andremo più lontano’”.
Vi è poi un altro strumento tutto da sperimentare che possiamo trovare sia nel codice degli appalti ‒ mi riferisco all’art. 151 comma 3 (forme di partenariato pubblico-privato in ambito culturale) ‒ sia nelle varie revisioni dell’art. 48 del Decreto Cura Italia, che possiamo considerare un po’ la madre di tutti i vari decreti successivi in piena pandemia (forme di co-progettazione tra pubblico e privato, con particolare riferimento ai settori sociale e socio-sanitario). Ispirati al principio costituzionale di sussidiarietà, entrambi i riferimenti normativi citati aprono prospettive inedite riguardo ad aspetti che superano la mera gestione, la incompresa valorizzazione, l’onnipresente fruizione e la sempiterna tutela: vi è infatti un’apertura inaspettata (mi riferisco qui all’art 151 comma 3 sopra citato) alla ricerca scientifica e – altra parolina magica – alla semplificazione, in riferimento alle procedure di selezione del partner privato. Come subito noterete, si tratta di poche righe: possiamo immaginare che lo stesso legislatore abbia optato per un percorso di lavoro tutto da scrivere e tracciare; va apprezzato lo sforzo. E soprattutto – amleticamente parlando – i privati (enti, imprese, terzo settore, e chi più ne ha più ne metta) si decidano se sia giunto il tempo di “prender l’armi”, il che tradotto potrebbe essere (o non essere): compiere il primo passo, divenire promotori di sperimentazioni e farsi portatori del coordinamento (quel costo/investimento nascosto, prodromico a qualunque progetto, e troppo spesso negletto o ignorato, non solo nei business plan); coordinamento che difficilmente il pubblico riuscirà a fare (in particolare di questi tempi; qualche sano nostalgico delle province qui direbbe che quello era il loro ruolo, al di là dell’efficacia nella attualizzazione).
PARTENARIATO E CO-PROGETTAZIONE
Parole come partenariato e co-progettazione nascono plurali (ricordate quando a scuola ci insegnavano in analisi grammaticale i nomi collettivi come folla, gregge, mandria, squadra?): perché non solo “tutto non tornerà più come prima”, ma solo “insieme andremo più lontano”. Abbiamo un foglio bianco davanti, per il titolo e lo svolgimento del tema questa volta abbiamo un’occasione unica: li scegliamo noi.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #57
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