Modelli organizzativi e cultura
Le imprese culturali sono disorganizzate, con tutte le conseguenze del caso? Capita spesso, lo sa bene chi opera in e con esse. Attenzione però a non farsi prendere dal virus della modellizzazione organizzativa. Qualche consiglio di Irene Sanesi.
Il disegno della geometria complessiva del sistema di poteri, responsabilità e relazioni degli individui che lavorano all’interno di un’impresa culturale prende il nome di “struttura organizzativa”, all’interno della quale i meccanismi di integrazione variano fra soluzioni codificate (che prevedono gerarchia, ruoli di contatto e collegamento, unità organizzative) e soluzioni informali. Gli aspetti positivi delle prime (più opportunità di controllo e coordinamento, prevedibilità degli effetti) riflettono i limiti delle altre, preferibili per flessibilità e da cui scaturisce un modello semplice (spesso tipico delle realtà piccole) che si può confrontare con modelli più complessi: 1. a vocazione gerarchica: funzionale e divisionale; 2. a vocazione relazionale: per progetti e a rete.
Semplificando, il museo-tipo di medie dimensioni ha una struttura funzionale, le Soprintendenze una struttura divisionale, mentre reti o sistemi museali si presentano come modelli a vocazione relazionale.
Ciascuna impresa culturale – in funzione delle dimensioni, delle attività, della governance e della direzione – dovrà valutare il modello organizzativo più adatto alla propria realtà in maniera flessibile, e prenderne coscienza, considerando nel corso del tempo l’eventualità di poter “cambiare pelle”. La coerenza del modello organizzativo è uno dei temi di maggior rilevanza che il management culturale si trova oggi ad affrontare. Un contesto più fluido (il che non significa senza regole), spazi comuni (anche fisici e logistici), un approccio interculturale, l’accoglienza dell’insuccesso e dell’errore aiutano a sviluppare modelli, ma soprattutto a trasformare modalità di lavoro in occasioni di crescita, verifica e innovazione.
Attenzione quindi a non farsi prendere dal virus della modellizzazione organizzativa. È efficace invece dedicare energie per “allenare” il proprio status, con l’esplicitazione delle caratteristiche organizzative e la semplice e utile osservazione della routine. Da lì scaturiranno organigramma, procedure operative e organizzative, buone pratiche, percorsi di accreditamento ai fini della qualità (certificazione). E non viceversa. Affermare la qualità nelle imprese culturali, oggi, significa coniugare codici etici e deontologici, sicurezza e ambiente, conoscenza ed educazione per un nuovo “assenso emotivo alla realtà organizzativa”.
Perché non pensare al modello organizzativo di un’impresa culturale utilizzando l’immagine della mente relazionale in chiave euristica (emisfero destro e sinistro): un sistema vivente che raggiunge l’eccellenza integrando le due modalità di elaborazione delle informazioni e che si dimostra plastico nei confronti dell’ambiente circostante.
Non dobbiamo forse “vedere le cose” prima di organizzarle, “stare dentro” l’incertezza prima di dominarla, “sentire” prima di pianificare?
Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati