Il futuro dei musei saranno gli ecomusei?
Emblema del dialogo fra il territorio e la comunità che vi risiede, gli ecomusei sono un modello esemplare per il futuro della cultura e delle sue istituzioni nel post pandemia. L’opinione di Irene Sanesi.
Beati coloro che hanno la verità in tasca e non conoscono la grammatica dei punti interrogativi. Soprattutto in questo frangente. Mala tempora currunt, il velo si è sollevato e sotto non abbiamo trovato la Dama con l’ermellino (a volte la nemesi storica riserva sorprese), ma nuove vulnerabilità. Abbiamo cominciato a comprendere il senso profondo di parole in larga parte rimosse o dimenticate, come cura e attenzione, ma anche premura e compassione: la pandemia ci ha ricordato che la nostra essenza è fatta proprio di queste parole e della nostra capacità di coltivarle.
Abbiamo più chiara la differenza tra operare in maniera emergenziale e farlo con un approccio strategico che nutra visioni, non solo la vision manageriale (altro mainstream fortemente ridimensionato). Abbiamo scoperto ‒ con un inatteso nuovo tempo a disposizione ‒ cosa c’è fuori dalle città, nelle periferie e oltre, che sono divenuti spazi inediti di permanenza, anche lavorativa. O lavorativa e vacanziera insieme, complice lo smartworking, tanto che è stato foggiato l’ennesimo anglismo: workation.
L’IDENTITÀ DEGLI ECOMUSEI
In questo contesto profondamente mutato e in mutamento si collocano gli ecomusei, un ibrido che sembra l’erede perfetto del nostro tempo seppur manifestatosi alcuni decenni orsono quando, negli Anni Settanta, Hugues de Varine coniò il neologismo riferendosi a un museo dedicato al territorio nel suo complesso: “un qualcosa che rappresenta ciò che un territorio è, e ciò che sono i suoi abitanti, a partire dalla cultura viva delle persone, dal loro ambiente, da ciò che hanno ereditato dal passato, da quello che amano e che desiderano mostrare ai loro ospiti e trasmettere ai loro figli”. Sarà il museologo Georges Henri Riviére a meglio definire quel qualcosa. L’ecomuseo è il museo del tempo e dello spazio in un territorio dato: un luogo che integra le due dimensioni dell’esistere che vengono poi ben declinate.
“È un museo del tempo, dove le conoscenze si estendono e diramano attraverso il passato vissuto dalla comunità per giungere nel presente con un’apertura sul futuro; è un museo con spazi significativi dove sostare e camminare privilegiando il linguaggio visivo diretto degli oggetti fisici e delle immagini, nel loro contesto originario e nella loro esposizione al pubblico”. Non finiscono qui le sue funzioni perché ciò che connatura un ecomuseo è la sua vocazione di studio, conservazione, valorizzazione della memoria collettiva di una comunità e del territorio che la ospita.
È il museo civico per eccellenza, l’ecomuseo, che ha come interlocutore privilegiato i propri abitanti e che negli anni è stato scoperto dai turisti trasformatisi in ospiti, grazie al particolare rapporto basato sul paradigma radici/memoria/fisicità/identità. Non è forse questo paradigma ciò di cui più abbiamo bisogno?
Non è un caso se da molte parti in Italia si stanno piantando nuovi alberi in memoria delle persone che hanno perso la vita a causa del Covid, perché piantare un albero non contempla il solo mero gesto dello scavare nella terra, quanto far sì che quel gesto consenta alle radici di attecchire, perché l’albero cresca e porti frutto, a partire dal divenire nel suo piccolo un ecosistema, un riparo, un generatore d’ombra. Non ci sono ecomusei senza alberi, piuttosto quasi tutti sono senza pareti, anche quelli urbani. Presenti infatti in via prevalente nelle aree rurali, collinari o montane, si sono sviluppati anche al di fuori, in tutti quei contesti di cross fertilisation e di buone pratiche di partecipazione civica, divenendo naturaliter gli agenti promozionali di un turismo culturale sostenibile.
I 9 ECOMUSEI TRENTINI
Ho avuto modo di conoscere da vicino i nove ecomusei trentini accompagnandoli in un percorso di empowerment che ha puntato a lavorare su consapevolezza, generatività, sviluppo. Li cito uno per uno perché il fatto che siano in rete (una reductio ad unum su cui stiamo lavorando sotto il profilo strategico, simbolico e giuridico) non è sufficiente a sintetizzare la loro straordinaria realtà: ecomuseo del Vanoi, della valle di Peio, della Judicaria, Argentario, del Lagorai, del Tesino, della Valsugana, della Valle dei laghi, della Val Meledrio. Una punteggiatura sapiente, governata da una legge provinciale che ha visto il coinvolgimento di numerosi comuni: all’iniziale obiettivo di rispondere a un vero e proprio pericolo, quello dell’abbandono di intere valli, gli ecomusei trentini hanno risposto nel tempo attraverso una proposta culturale e civica che si è immediatamente interconnessa con l’offerta turistico-ricettiva immaginando concretamente un’alternativa alla monocultura della neve (e di nuovo la pandemia ci ha aperto gli occhi coltivando uno sguardo più ampio) e avviando una crescente destagionalizzazione (altro tema centrale in Italia e in certi luoghi). Gli ecomusei trentini, specchio di un modello a cui guardare per una rinascita del settore turistico culturale in chiave ambientale e sostenibile, sono davvero spazi nei quali il paradigma delle origini ‒radici/memoria/fisicità/identità ‒ si realizza. Un avveramento che diventa al contempo svelamento attraverso il patto di prossimità che la comunità attua prendendosi cura del proprio territorio
ECOMUSEI: UN MODELLO DINAMICO
In un momento storico che ha visto la chiusura, anche ostinatamente prolungata, dei musei italiani e dei luoghi di cultura, gli ecomusei divengono icona ‒ oserei dire baluardo ‒ di un modello che supera la funzione di ostensione e contemplazione (il tempio delle muse) per lasciare campo a modelli dinamici e ibridi, di agorà, di contingenza esistenziale, di nuove architetture attraverso il paesaggio, in un continuum ‒ come avviene in Trentino ‒ nel quale l’attraversatore contemporaneo (cittadino, turista, viaggiatore, esploratore) vive non solo l’esperienza estetica quanto quella umana, e dal contatto (unico vero contagio edificante) con l’insieme che l’ecomuseo rappresenta, esercita, magari con intensità diverse, quell’apprendimento della cultura e della cura, che saranno i nostri strumenti per progettare il domani. A partire dall’anno appena cominciato, l’ermellino (e il suo habitat antropizzato), insomma, ce l’abbiamo.
‒ Irene Sanesi
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