Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fare finta che quanto stiamo vivendo non sia un cambiamento epocale e attendere speranzosi il “ritorno alla normalità” sono atteggiamenti dannosi e inutili. Per questo l’arte deve cominciare a riorganizzarsi e a riflettere su se stessa.
L’aspetto più impressionante di ciò che sta accadendo in questi mesi è il silenzio: la qualità e il peso di questo silenzio. Come tutti sappiamo, infatti, se durante il primo lockdown si erano sollevate (deboli) proteste contro la chiusura dei luoghi dedicati all’arte, in occasione di questa fase invece si sono sollevate pochissime voci.
La questione, come sempre, non riguarda solo o semplicemente gli spazi istituzionali, il loro ruolo e la loro funzione (anche e soprattutto in un periodo del genere), ma il peso, la rilevanza dell’arte stessa, e delle opere, all’interno della nostra società e delle nostre comunità. All’interno delle nostre vite.
È abbastanza facile – e infatti sembra l’atteggiamento più diffuso – in questo momento trincerarsi dietro l’attesa speranzosa che tutto ritorni come prima, che le mostre riprendano, che i musei riaprano, eccetera eccetera. Altrettanto facile è (o sarebbe) rendersi conto dell’assurdità di questo stesso atteggiamento, per il semplice fatto che ciò a cui tanto apparentemente desideriamo tornare “non ha più senso”, come Paul B. Preciado ci avvertiva ormai mesi fa (Tornate, sbrigatevi. Ma per andare dove?, “Internazionale”, 21 settembre 2020). La “vita normale” – o ciò che in molti consideravano tale ‒ non esiste più, e ciò vale ovviamente anche per l’arte contemporanea.
È per questo che il silenzio, l’assenza pressoché totale di discussione pubblica e aperta, è ancora più assordante. Perché evidenzia il difetto sostanziale del sistema artistico negli ultimi decenni, quella distanza tra verità interna e immagine esterna che adesso è diventata davvero insostenibile, e incolmabile. Adesso, proprio il “fare finta” che sembrava così integrato con l’esistenza stessa del sistema, si rivela per quello che è, ma che in definitiva era anche prima (nonostante la maggioranza evitasse accuratamente di guardare, o anche solo di ammettere, questa realtà): un ostacolo gigantesco all’evoluzione.
In un periodo in cui tutte le dimensioni e i fattori che costituivano il contesto dell’opera (pubblico, mostra, comunicazione, mercato, spazio istituzionale) sembrano essersi praticamente sgretolati e disintegrati in un arco di tempo brevissimo, è chiaro che sono gli artisti probabilmente a percepire il disorientamento più profondo. Almeno, così mi sembra.
“L’obiettivo è quello di fare in modo che l’arte torni a essere parte integrante dell’esistenza e dell’immaginario collettivi, e non un territorio del tutto marginale, ignorato e messo da parte come non necessario’”.
È chiaro, quella che abbiamo davanti è una prospettiva per molti versi paralizzante, terrorizzante. Ma non lo è forse di più pretendere che tutto – fiere, mostre, modi di relazionarsi con le opere – riprenda in un ipotetico futuro come se nulla fosse?
Preciado nella sua riflessione parlava di un cambiamento di paradigma in atto, ed è proprio quello che stiamo vivendo, che abbiamo davanti tutti i giorni: e la rimozione non può essere, ancora una volta, la strategia fondamentale per far fronte a un cambiamento di paradigma. Ciò che si rivela disfunzionale oggi lo era già prima, come il virus ci ha insegnato in questi mesi: la disfunzionalità è stata solo drammaticamente amplificata, e i processi che avrebbero impiegati anni (o decenni) a compiersi esplodono in un tempo molto più ridotto.
Una prima soluzione è parlare: rompere cioè questo silenzio, e non con discorsi retorici o frasi fatte, ma discutendo realmente dei problemi da affrontare, e anche delle nuove prospettive che si aprono. Parlare vuol dire anche stare insieme, pensare insieme, progettare insieme, e dunque rompere un isolamento che non è solo fisico. Riunirsi, costruire e ricostruire delle vere comunità a partire dalle esigenze e dalle riflessioni comuni, dal dialogo e dall’interazione.
Un momento epocale come questo richiede all’arte contemporanea di ripensarsi radicalmente: perciò, risposte a metà, timide ipotesi di riforma che hanno come scopo quello di conservare lo status quo non sono la risposta più adatta. Gli artisti più consapevoli in questo momento stanno già discutendo tra di loro, e stanno cominciando a immaginare come ridefinire il loro ruolo e la loro funzione – e come questo processo influenza e influenzerà l’opera.
L’obiettivo è quello di fare in modo che l’arte torni a essere parte integrante dell’esistenza e dell’immaginario collettivi, e non un territorio del tutto marginale, ignorato e messo da parte come “non necessario”: ma per ottenere questo occorre ovviamente definire chiaramente le cose e i fenomeni, non nascondersi e rinunciare definitivamente a ogni tentazione decorativa. Riscoprire cioè la dimensione della responsabilità, e comprendere quanto essa sia al centro esatto dell’opera d’arte.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
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