Dal 15 gennaio un italiano, il 37enne romano Valentino Catricalà, sarà il nuovo responsabile di SODA gallery a Manchester, l’istituzione che ha l’obiettivo d’indagare il rapporto tra arte e tecnologica aspirando a diventare la più importante realtà europea nell’ambito delle ricerche digitali. SODA (School of Digital Arts), che inizierà la sua attività in settembre, fa parte della Manchester Metropolitan University e avrà al suo interno un grande spazio dedicato a mostre e residenze d’artista dove si affrontano temi quali l’intelligenza artificiale, il 3D, il cinema d’animazione e UX design. Per realizzare questo progetto, il governo britannico ha investito 35 milioni di sterline, una somma straordinaria che mai nessuna nazione europea aveva messo a disposizione prima d’ora. Ma quali sono gli obiettivi? E qual è il futuro dell’arte digitale attualmente ancora snobbata dal mercato? In quest’intervista a tutto campo, Catricalà, già direttore artistico del Festival Art Media di Roma, affronta le problematiche di un settore che nei prossimi anni potrebbe modificare lo scenario dell’arte contemporanea
INTERVISTA A VALENTINO CATRICALÀ
SODA, realizzato da FCB Studios, ha l’obiettivo di diventare la più importante istituzione europea nell’ambito della ricerca tecnologica. Come responsabile della gallery, che ruolo avrai?
Gestirò uno spazio indipendente che manterrà uno stretto legame con la scuola in base al modello americano del MIT Media Lab. L’obiettivo è quello di realizzare mostre, residenze d’artista, produzioni di opere, progetti di collaborazione con altri enti tra cui la Biennale di Venezia, la Biennale de l’Image en Mouvement di Ginevra, Ars Electronica di Linz e molte altre istituzioni culturali con cui stiamo instaurando un dialogo proficuo. Evidentemente, non mancheranno numerose iniziative dislocate sul territorio in modo da sensibilizzare attivamente una realtà particolarmente dinamica come Manchester dove, tra l’altro, viene organizzato il Future Festival, il MIE, Manchester International Festival e altri grandi eventi. La stessa facciata di SODA è un maxischermo con LED integrati che verrà utilizzato per mostre fruibili 24 ore in dialogo permanente con il resto della città.
Il progetto, nel suo complesso (l’apertura ufficiale è prevista nel settembre 2021), ha richiesto un investimento straordinario di 35 milioni di sterline, quasi 40 milioni di euro, la più alta somma mai spesa da un governo europeo nell’ambito delle ricerche tecnologiche. Come viene destinata questa cifra?
Una parte consistente è stata investita nella realizzazione dell’edificio e della gallery. Il tutto accompagnato da strutture tecnologiche all’avanguardia che ospiteranno oltre mille studenti ogni anno. Il resto della cifra servirà alla gestione delle iniziative per creare un luogo fortemente attrattivo, destinato a coinvolgere sponsor e partner dell’universo tecnologico con l’ingresso, tra gli altri, di Sony, Microsoft e BBC. Alla gestione di SODA contribuiranno anche importanti filmmaker tra cui Danny Boyle, il regista di Trainspotting, che avrà il ruolo di testimonial.
Su quali settori tecnologici ti concentrerai maggiormente?
Sono molti i settori d’interesse, soprattutto in una realtà tecnologica in forte espansione. Per ora l’obiettivo è concentrarsi soprattutto su intelligenza artificiale, 3D, film d’animazione, game design, fotografia e UX design, che sono anche i temi su cui si svilupperà la ricerca didattica di SODA.
UX design. Cosa s’intende con questa nuova professione digital?
L’User Experience Designer progetta l’esperienza di un utente relativa all’uso di un prodotto digitale. Nella sostanza, a me interessa indagare l’ibridazione del messaggio che si produce in un contesto che accoglie arte e design. In questo settore appare, per esempio, particolarmente significativa l’esperienza dei Formafantasma, il duo formato dagli italiani Andrea Trimarchi e Simone Farresin che nei mesi scorsi ha esposto alla Serpentine Gallery di Londra.
MOSTRE E ARTISTI DA SODA GALLERY
Sotto il profilo espositivo, quali sono le tematiche che intendi seguire?
Sono particolarmente interessato al ruolo dell’immagine nella realtà di oggi. In tal senso va approfondito il processo dell’intelligenza artificiale e di un suo aspetto assai problematico, quello connesso con il machine learning che parte dall’osservazione di informazioni prodotte automaticamente attingendo dalla realtà e dal web. Nel mio programma di mostre vorrei coinvolgere artisti quali Trevor Paglen, che ha recentemente esposto alle OGR di Torino, Ian Cheng e Ed Atkins. Tra le altre tematiche che desidero sviluppare ci sono quelle dell’Antropocene, dove si distingue Tomás Saraceno, e le ricerche sullo spazio sonoro dove spicca Florian Hecker, che lavora sul suono di sintesi.
E tra gli artisti italiani chi vorresti coinvolgere oltre ai Formafantasma?
Ogni iniziativa dovrà essere vagliata dal comitato curatoriale e dal direttore della School. Ma sicuramente vorrei promuovere il lavoro degli artisti italiani; la valorizzazione può avvenire in tanti modi diversi anche creando situazioni utili per la loro ricerca. Fra quelli che vorrei coinvolgere ci sono Donato Piccolo, Daniele Puppi, Masbedo, Federica Di Carlo, José Angelino, Luca Rossi, Giuliana Cunéaz, Arcangelo Sassolino, Roberto Pugliese, Elisa Giardini Papa, Paolo Cirio, solo per citare alcuni degli artisti con cui collaboro. Ma l’elenco sarebbe molto più lungo.
In Italia non esistono centri di ricerca e gli artisti fanno fatica a realizzare i loro lavori senza finanziamenti. Cosa sarebbe necessario fare per migliorare la situazione?
Il problema è che in Italia non c’è mai stato uno sbocco istituzionale e ancora oggi non solo mancano i musei dedicati alla ricerca tecnologica, ma in pochissimi si sono attrezzati per dedicare almeno una sezione dello spazio espositivo a questo ambito d’indagine. Eppure, in Italia sono nate iniziative pionieristiche come Art/tapes/22 creato a Firenze nel 1972, tra i primi centri di produzione della videoarte. Anche i festival di Ferrara e Camerino sono stati all’avanguardia. Ma di tutto ciò non sono rimaste tracce. Oppure ci sono luoghi quali il Meet. Digital Culture Centre, nato a Milano alla fine di ottobre, un centro molto interessante, che però non si concentra sull’arte ma sul digitale in generale.
E nel resto d’Europa?
Il Paese capofila è sicuramente la Germania, dove opera lo ZKM fondato a Karlsruhe nel 1989, e Hochschule für Grafik und Buchkunst di Lipsia, da oltre trent’anni un punto di riferimento. Non va, poi, dimenticato il festival Ars Electronica fondato nel 1979 a Linz. Sono molte le iniziative anche in Olanda e nel 2016 è nato a Lisbona il Maat, uno straordinario museo di Arte, Architettura e Tecnologia. Ora il mondo dell’arte si sta accorgendo di queste tematiche, come dimostra l’esempio della Serpentine Gallery di Londra.
IL LEGAME FRA ARTE E TECNOLOGIA
A dicembre è uscito, nella collana della collezione Farnesina, Arte e tecnologia del Terzo Millennio, una pubblicazione edita da Electa dove, insieme a Cesare Biasini Selvaggi, ne analizzi la relazione con un focus su 86 artisti italiani. Qual è oggi la maniera corretta per approcciare la tecnologia, un settore che sembra aver invaso ogni campo? E com’è possibile identificare i veri artisti distinguendoli dai tanti epigoni o da coloro che fanno un uso strumentale delle tecnologie senza alcun reale apporto creativo?
Non c’è dubbio che la situazione appaia molto complessa e nella mia trattazione ho inserito, per esempio, artisti quali i Masbedo o Rä di Martino che sono approdati alla tecnologia dopo essere partiti dal video o dal cinema. Oggi ci troviamo in un’epoca postmediale e quell’arcipelago apparentemente omogeneo che potevamo osservare sino a una decina d’anni fa appare ora estremamente frastagliato con vistose irregolarità. Il discrimine va ricercato tra chi usa la tecnologia come fine lasciandosi sedurre dalle sue molteplici potenzialità e chi, invece, ne sa cogliere le problematiche attraverso un atteggiamento sperimentale, critico e innovativo. Nella prima categoria, per esempio, rientra un artista come Miguel Chevalier che produce soluzioni di notevole fascino, ma senza incidere sul processo creativo. Limitarsi agli effetti speciali non è sufficiente.
La sempre maggior vicinanza tra arte, tecnologia e industria (SODA rientra in questa logica) non rischia di ridurre il ruolo della ricerca trasformando gli artisti in ottimi tecnici o creatori di videogiochi, funzionali alla produzione, ma privi di una reale poetica?
Indubbiamente, questo rischio si corre ed è essenziale il ruolo di un mediatore come il critico d’arte, in grado di distinguere l’arte dall’uso autoreferenziale della tecnologia. È un’azione che si deve svolgere in un circuito ampio che coinvolge artisti, centri di ricerca scientifici e aziende del settore. La tecnologia, del resto, come ogni altro ambito della ricerca estetica, è un mezzo non un fine.
La ricerca tecnologica, ha, poi, un grande scoglio da superare: l’indifferenza o, addirittura, l’ostilità di gran parte del mercato che non considera questo settore commercialmente proficuo per la difficoltà di applicare il concetto di unicità alle singole opere, un aspetto essenziale per poterle valorizzare e vendere.
Il problema esiste anche se non credo che lo sbocco primario dell’arte tecnologica sia quello del mercato tradizionale. Sarà orientata maggiormente alle committenze e alla realizzazione di progetti in team che coinvolgono differenti ambiti di ricerca, dall’architettura alla scienza sino al design. In ogni modo qualcosa si sta muovendo anche sul fronte delle top galleries. Ian Cheng, per esempio, lavora con Barbara Gladstone, Ed Atkins con Gavin Brown e Jakob Kudsk Steensen è corteggiato da Pace che già lavora con TeamLab e Tara Donovan.
‒ Alberto Fiz
www.schoolofdigitalarts.mmu.ac.uk
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