Fase Tre (XI). Aperture e imprevisti
“La sospensione, la dissociazione, la perdita di senso che stiamo attraversando non vanno rimosse né sprecate: perché ci permettono di concentrarci su quell’apertura, su quell’orizzontalità e su quella disponibilità che sono fondamentali per allargare il racconto, per ampliare il respiro del racconto artistico e orientare in senso radicale l’efficacia della sua riflessione”. Nuovo capitolo delle riflessioni di Christian Caliandro sulla Fase Tre.
La teoria sulla “sporta del narratore” che Donna Haraway in Chthulucene mutua da Ursula K. LeGuin, e con cui si concludeva la scorsa puntata, è un modello di apertura che ci spiega molto bene il senso del cambiamento di paradigma che stiamo affrontando. Apertura come rinuncia al vecchio modello in cui l’eroe, il cacciatore era il protagonista assoluto della storia, di ogni storia, e come accoglimento, inclusione di elementi e aspetti (la fionda, la pignatta, la bottiglia) che cessano di essere secondari o strumentali nell’economia della narrazione e che assumono invece il ruolo di co-protagonisti, di co-creatori.
Apertura dunque come disponibilità all’imprevisto: cioè a modificare in profondità la logica con cui interpretiamo la realtà. Nell’ambito dell’arte, questo significa adottare un’orizzontalità che finora era in qualche modo preclusa, e quindi per esempio comprendere come l’opera abbia a disposizione un campo di possibilità molto più ampio e ricco rispetto a quelle garantite dalle strategie basate sul display.
L’opera che rientra in una logica meramente “espositiva” accetta infatti che il pubblico resti tale, e che l’unica e sola relazione possibile con esso sia quella del consumo (che non è una relazione, al massimo un simulacro di relazione): esattamente ciò che dieci mesi di virus hanno messo in crisi, o meglio, ciò di cui hanno rivelato esplicitamente la crisi.
È evidente infatti che l’aspetto dell’opera d’arte negli ultimi decenni – l’aspetto cioè di ciò che l’arte contemporanea è stata ed è, del ruolo che svolge e delle istanze a cui risponde e corrisponde – sia inscindibile da tutto ciò che forma il suo “contesto”, il sistema così come si è articolato a partire dagli Anni Sessanta e Settanta, le istituzioni, le fiere, gli eventi, il mercato globale: in una parola, il “mondo dell’arte”.
ARTE CONTEMPORANEA E VUOTO
Pensare che questo mondo dell’arte sia stato semplicemente il veicolo, l’infrastruttura di trasmissione per un’opera che si è evoluta e trasformata secondo criteri propri e indipendenti, è ovviamente un’illusione: il mondo dell’arte ha invece modellato l’opera e le sue caratteristiche, e l’opera si è adattata a particolari esigenze. I meccanismi di distribuzione e ricezione hanno cioè largamente influenzato il territorio della produzione.
Il problema è che le “particolari esigenze” a cui l’opera d’arte si è largamente adattata nell’arco di questi decenni rientrano nel racconto dalla parte dell’eroe di cui parlano Haraway e LeGuin – non si rivolgono affatto (tranne eccezioni) all’orizzontalità implicata dalla teoria della sporta. Nel momento in cui osserviamo venire meno per un periodo piuttosto lungo i fattori che compongono tradizionalmente il contesto dell’arte contemporanea, la sua mediazione, il vuoto che si viene a creare – e che può essere anche angosciante – smette gradualmente di essere tale, di essere percepito cioè in quanto vuoto (“O forse – idea ancora peggiore per l’eroe – come fanno queste cose concave e svuotate, questi buchi nell’Essere, a generare sin dall’inizio storie più ricche, particolari, piene, impossibili da categorizzare, capaci di progredire, storie che danno spazio al cacciatore ma che non raccontavano e non raccontano di lui, l’umano che si fa sé, la macchina della storia che crea l’umano?).
METTERE IN DISCUSSIONE ARTE E CONTESTO
Le “cose concave e svuotate” sono esattamente quelle che compongono il mondo fuori dal mondo dell’arte, la vita fuori dal sistema in cui le opere sono posizionate e dialogano in modo artificiale. Ancora una volta, questo processo inizia a risultare evidente ora, per le condizioni che si sono create nell’arco di questi dieci mesi, ma era già largamente in corso.
È per questo in fondo che la sospensione, la dissociazione, la perdita di senso che stiamo attraversando (consapevolmente o inconsapevolmente, volentieri o riluttanti) è così importante e non va rimossa né sprecata: perché ci permette di concentrarci su quell’apertura, su quell’orizzontalità e su quella disponibilità che sono fondamentali per allargare il racconto, per ampliare il respiro del racconto artistico e orientare in senso radicale l’efficacia della sua riflessione.
Ciò che può essere messo in discussione in questo momento non è semplicemente l’aspetto esteriore, ma la struttura interna che ha dato forma per lungo tempo a questo aspetto: una struttura gerarchica, elitaria, esclusiva, patriarcale ed espressione di società neoliberiste. Come afferma J. J. Charlesworth in una recente conversazione con Liam Gillick, “ciò richiederebbe una visione molto differente dello scopo dell’attività artistica, e della natura della libertà culturale in una società che diventa sempre meno libera. Forse serve un consiglio di amministrazione che dica, ‘questo sistema non funziona più, buttiamolo giù e proviamo qualcosa di diverso’: ma ne dubito. Avrebbe molto più senso se fossero gli artisti a dirlo. E allora, la tua domanda su ‘che cosa costituisce un artista contemporaneo’ torna in gioco” (Is This The End of Contemporary Art As We Know It?, “ArtReview”, 29 September 2020).
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro
Fase Tre (X). L’opera e il contesto
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