24,3 miliardi di paia di sneaker sono state immesse sul mercato nel solo 2019: in pratica 66 milioni di calzature ogni giorno. Un record assoluto, me per niente rassicurante. Questa produzione è responsabile di un quinto dell’impatto ambientale dell’intera industria della moda e genera l’1,4% delle emissioni globali di carbonio riversate sul pianeta. La stragrande maggioranza delle calzature prodotte finisce in discarica, dove si assestano componenti di derivazione petrolchimica, come l’etilene vinil acetato, sostanza che impiega secoli a degradarsi.
Nike, il marchio moda di maggior successo al mondo, è leader in questo segmento e, a partire dal 2019, utilizza materiali riciclati nel 76% dei suoi prodotti. Pronta per essere venduta online a partire dal 26 febbraio prossimo, arriva ora la collezione Cosmic Unity, la sua prima incursione nell’abbigliamento sportivo sostenibile. Si tratta di una capsule composta da una sneaker in tre colorazioni, undici pezzi di abbigliamento e un pallone da basket. Testimonial la star femminile del basket USA A’ja Wilson. La nuova sneaker include almeno il 25% di contenuto riciclato: intersuola, dettaglio della linguetta e tallone sono realizzati con schiume e mescolate al 10% di gomma Nike Grind. Quest’ultima è ricavata da 60mila tonnellate di scarti provenienti dalle altre produzioni di Nike ‒ gomma, schiuma, pelle, tessuto e plastica ‒combinati con 32 milioni di paia di calzature recuperate dai consumatori da quando Nike ha avviato il programma Reuse-A-Shoe nel 1993. Dal 2010 inoltre Nike ha deviato più di 7,5 miliardi di bottiglie di plastica dal loro tragitto “naturale” verso le discariche o i corsi d’acqua trasformandole in poliestere riciclato, materiale che compare nella fodera, nella linguetta, nella soletta e nei lacci delle Cosmic Unity. Pure lo swoosh in poliuretano termoplastico utilizza materiale riciclato.
SNEAKER ED ECOLOGIA
Il desiderio di indossare calzature sostenibili è indicativo della crescente consapevolezza dei consumatori a proposito delle pratiche in uso in questo settore e dei loro effetti sul pianeta. Marchi come Nike sono sotto pressione sempre e comunque, per fare di più e meglio. La Cosmic Unity rappresenta un progresso in questa direzione, va incontro alle aspettative green dei suoi giovani consumatori. Come del resto si appresta a fare con il lancio della nuova Index.01, annunciato per questo 2021, la francese Salomon. Index.01 è costruita con due soli materiali: una tomaia in poliestere riciclato e un fondo in schiuma a base di poliuretano termoplastico a base di azoto che può essere in un secondo tempo macinato in piccoli pezzi per la costruzione di scarponi da sci alpino, settore dove Salomon è regina. Acquistando una Index.01, i clienti Salomon riceveranno sul proprio PC un voucher per la spedizione gratuita delle vecchie sneaker al centro di raccolta più vicino.
Il fascino narrativo di una scarpa che si trasmuta in un’altra è un punto di forza del marketing strategico: soprattutto ora che l’utilizzo dell’online dispensa dal provare preventivamente gli oggetti che indossiamo, la magia di un racconto viene percepita come realtà. Sebbene le aziende calzaturiere tendano a ritrarre il riciclaggio da scarpa a scarpa come una sorta di magico nastro trasportatore, dove le vecchie scarpe entrano da un lato e le nuove scarpe emergono dall’altro, la realtà è più sfumata.
MODA E TRASPARENZA
La questione riguardante questo tipo di produzioni è tutt’altro che risolta. L’industria calzaturiera è indietro di almeno un decennio rispetto al resto dell’industria della moda. I marchi leader sono in gran parte di origine americana o europea, ma la maggior parte della produzione avviene in Asia. In termini di diritti dei lavoratori (2 sneaker su 3 sono fabbricate in Cina, Vietnam o aree limitrofe, con scarsi o nessun controllo sulle façon), di trasparenza riguardante i materiali utilizzati, e di modelli di business, resta ancora molto da fare.
Per quanto riguarda i materiali impiegati, ad esempio, la calzatura è tradizionalmente un prodotto complesso. Una t-shirt può contenere una o due tipi di fibre: la costruzione di una sneaker può contenere fino a 30 materiali diversi. Qualcosa in ogni caso ha cominciato a muoversi. Oltre a Nike e Salomon, il marchio francese Veja si fa forte di una trasparenza radicale: elenca tutti i materiali usati, il loro impatto e le loro certificazioni. Il marchio neozelandese-americano Allbirds etichetta ogni prodotto con la quantità di emissioni di carbonio sostenute durante la sua produzione, utilizzo e fine vita. Il marchio Been London collabora con la startup ambientalista Terra Neutra per misurare l’impatto del carbonio della sua borsa più venduta, che afferma essere l’87% in meno rispetto a modelli comparabili.
IL MODELLO SNEAKERHEAD
Esistono collezionisti d’arte, così come c’è chi investe in borse Chanel. Da una decina di anni si è fatta largo la figura del collezionista di sneaker. Uno sneakerhead (così viene definito l’addicted a questo genere di consumo) è pronto a spendere somme sorprendenti per la sua collezione di scarpe da ginnastica. E la sua “cultura” è l’esatto opposto della sostenibilità: si basa sul consumo ripetitivo e sulla ludicizzazione dello shopping piuttosto che sull’utilità del prodotto. Netflix ne ha tratto persino una serie
L’attuale modello di business di chi produce ovviamente incoraggia apertamente questo consumismo scardinato: lo sneaker drop, il ritmo di immissione di nuovi modelli sul mercato, è in costante aumento: nel 2019 il mercato globale delle sneaker valeva 100 miliardi di dollari, ma il settore è rimasto sino a ora quasi del tutto non regolamentato. Per questo qualcuno ha cominciato a chiedersi se una situazione del genere non debba essere presa in considerazione dai legislatori. Se i marchi massimalizzano i loro profitti creando prodotti usa e getta, devono essere ritenuti responsabili di ciò che accade ai loro prodotti quando hanno terminato la loro vita.
LA NECESSITÀ DI UN CAMBIAMENTO SISTEMICO
Affrontare adeguatamente ciò che accade alla produzione di sneaker, come a quella di abbigliamento, una volta terminato il loro utilizzo richiede la creazione di infrastrutture e logistica per la raccolta di vestiti, lo sviluppo di piattaforme per ripararli e rivenderli e l’incremento delle tecnologie per riciclarli in nuovi prodotti: in pratica un cambiamento sistemico a livello sia globale che locale. Per arrivarci sono necessarie politiche che guidano alla creazione di centri di raccolta e altre infrastrutture, incentivando al contempo la revisione dei modelli di business. Sotto la spinta degli attivisti green la politica comincia a identificare modi per convincere l’industria della moda a rendere conto del suo impatto sul pianeta. L’idea che i marchi dovrebbero essere responsabili di ciò che accade ai prodotti quando il loro consumo è terminato è un obiettivo di sempre degli ambientalisti. L’urgenza climatica riporta ora l’attenzione sul concetto di EPR (Extended Producers Responsability), in particolare per la moda, una delle categorie dove i rifiuti sono in più rapida crescita. Secondo il Parlamento europeo l’87% degli indumenti usati finiscono inceneriti o messi in discarica. Francia, Regno Unito e Paesi Bassi (questi ultimi mirano a essere completamente circolari entro il 2030) stanno definendo meccanismi EPR con progetti di legge, che si concentreranno prima sugli imballaggi, ma in seguito prederanno in considerazione i materiali utilizzati. Negli Stati Uniti la situazione appare più complessa ma anche lì qualcosa comincia a muoversi.
‒ Aldo Premoli
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