New York, l’AIDS e la pittura. La storia di Patrick Angus
C’è molta Italia nella storia artistica di Patrick Angus, specialmente dopo la sua morte a causa dell’AIDS negli Anni Novanta. A “riscoprirlo” è stato il regista italiano Fabio Cherstich e oggi la galleria newyorkese di Stefania Bortolami ospita una mostra dedicata alla sua pittura.
Mentre la pandemia continua a imperversare nel mondo, in questi giorni alla galleria Bortolami di New York c’è una mostra che racconta gli anni di un’altra epidemia che colpì nel profondo la città e la sua comunità artistica, quella di AIDS. Tra la fine degli Anni Ottanta e la fine dei Novanta le vittime furono decine di migliaia, con una particolare incidenza nella popolazione omosessuale. Tanti gli artisti le cui vite furono segnate, quando non interrotte, dalla diffusione di un virus allora sconosciuto e stigmatizzato. New York non sarebbe stata mai più la stessa.
Tra quegli artisti c’era un giovane originario della California che nei suoi quadri dal realismo scarno e provocante portava la quotidianità e la trasgressione di un mondo che, proprio quando stava iniziando ad assaporare una faticosamente conquistata libertà sessuale, si ritrovò sprofondato nella paura e nel pregiudizio.
PATRICK ANGUS E FABIO CHERSTICH
Patrick Angus (North Hollywood, 1953 ‒ New York, 1992) fu il documentarista della New York di quegli anni. Nelle sue tele c’è la sospensione tra emancipazione e proibito, tra piacere e angoscia. Fu lui stesso una vittima dell’AIDS e negli anni successivi alla sua morte fu dimenticato, sepolto da un perbenismo che racconta la storia di quell’epoca a mezza voce. Per anni i suoi lavori sono rimasti chiusi in scatole polverose, custodite in una casa di una cittadina dell’Arkansas. Fino a quando, dall’altra parte dell’oceano, è arrivato un regista italiano di opera e teatro innamorato del lavoro di Angus. È stato per caso che Fabio Cherstich ha iniziato a interessarsi del lavoro di Angus: “Nel 2013 ero a Parigi” ‒ ci ha raccontato ‒ “e un amico mi aveva consigliato di incontrare Tomaso De Luca, artista che in quel periodo era in residenza all’Istituto Italiano di Cultura in Francia, perché pensava che il suo lavoro potesse piacermi. Il che era vero: ho scoperto un artista che mi piace molto e in più ho trovato un amico. È stato lui che, durante una lunghissima conversazione sugli artisti che amavamo, a un certo punto sul suo telefono mi ha fatto vedere un’immagine di un quadro di Patrick Angus. L’ho trovato meraviglioso. Non solo perché mi incuriosiva che un artista potesse decidere di ritrarre un soggetto come un cinema porno, ma anche la tecnica, le proporzioni, la luce, la composizione, mi piaceva tutto. Mentalmente mi sono segnato questo nome per approfondire”.
Tornato in Italia Cherstich iniziò a fare ricerche scoprendo che un’opera di Angus era nella collezione del Leslie-Lohman Museum of Art di New York, che sull’artista c’era qualche libro, ma niente mostre, nessuna galleria. Spinto dal desiderio di vedere altri suoi lavori, il regista continuò le sue ricerche fino a scoprire che alcune opere di Angus erano custodite al Regional Museum of Art di Fort Smith in Arkansas. La cosa lo incuriosì. I soggetti dei quadri, infatti, stridevano parecchio con un ambiente conservatore e provinciale come quello di una piccola cittadina dello stato del Sud degli USA. Si mise così in contatto con la curatrice, che fu contenta di sapere che dall’Italia qualcuno si interessasse della loro collezione e gli spiegò che la madre di Angus viveva nella loro cittadina. “La curatrice mi mette in contatto con la madre” ‒ continua Cherstich. “La chiamo e parliamo molto e mi racconta di questo figlio che faceva l’artista che è morto di AIDS nel ‘92 e di quanto il suo lavoro sia stato da lei gelosamente custodito in scatole che lei ha a casa. Mi dice che da anni chiedeva all’università se c’era qualcuno interessato a questo materiale, a digitalizzare l’archivio e fare qualcosa su suo figlio, ma nessuno aveva mai dimostrato interesse. Ho subito pensato: vado a trovarla. E così l’anno dopo sono andato in Arkansas con una mia amica fotografa che vive a New York, Carlotta Manaigo”.
LE OPERE DI PATRICK ANGUS NELLA CASA DELLA MADRE
A Fort Smith, Cherstich ha trovato una signora ottantenne che non vedeva l’ora di poter mostrare il lavoro del figlio e con una casa piena di quadri, disegni e bozzetti fatti da Angus nel periodo dall’adolescenza fino al trasferimento da Los Angeles a New York. “Fort Smith è uno di questi posti assurdi americani, con un’unica via principale, il mall, e file di negozi, di cui molti di armi, gas station nel mezzo del nulla, tutto molto ordinato. Scenari che si ritrovano nei paesaggi dipinti da Angus, influenzati dalla pittura della Bay Area. La madre, Betty, abita in una di quelle classiche villette di queste cittadine. E ha trasformato la sua casa in una casa museo, c’erano quadri dovunque: in cucina, in camera, in soggiorno, in garage. Lei cuce e ricama e tutta la tappezzeria le tende, i centrini, le tovaglie erano costruiti sulle palette dei quadri del figlio. In soggiorno aveva i quadri astratti, che sono bellissimi e risentono della scuola americana dell’astrattismo e del minimalismo, e aveva fatto dei centrotavola rossi e gialli come i dipinti. Nella camera da letto aveva dei paesaggi marini e aveva fatto un copriletto azzurro e bianco”.
Dopo la scoperta di Cherstich, che nel frattempo sull’artista ha curato un volume insieme ad Anna Siccardi, sulle tracce di Angus si è messa anche la galleria Thomas Fuchs di Stoccarda, che ha recuperato molte delle sue opere newyorchesi, nel 2016 ha partecipato alla pubblicazione di una monografia a cura di Hatje Cantz e nel 2017 ha organizzato una grande retrospettiva al Kunstmuseum Stuttgart accompagnata da un catalogo pubblicato da Distanz Verlag. In seguito Angus è stato riscoperto anche in America, dove il Long Beach Museum of Art, in California, gli ha dedicato una mostra nel 2019.
LA MOSTRA SU ANGUS ALLA GALLERIA BORTOLAMI A NEW YORK
Ora Angus arriva finalmente a New York con una mostra, in corso fino al 27 febbraio da Bortolami, che presenta tre quadri, tra cui quello nel cinema porno con cui Fabio Cherstich ha scoperto l’artista, e una selezione di lavori su carta che vanno dalla fine degli Anni Settanta fino all’anno della morte. Tra le opere esposte ci sono schizzi e bozzetti, ritratti a matita, pastelli, acquerelli, soggetti rappresentanti nell’intimo del loro spazio domestico, corpi catturati in momenti di riposo e quotidianità. Anche dietro questa mostra c’è l’impegno di Cherstich: “Ero a New York perché presentavo il lavoro di Angus a due curatori del Whitney Museum e grazie a un’amica, Paola Clerico, ero in contatto anche con Stefania Bortolami. Quando sono andato a trovarla in galleria, le ho portato in regalo il mio libro su Angus. Lei lo ha aperto, lo ha sfogliato con attenzione e dopo pochi secondi mi ha detto: ‘Fantastico! Quando facciamo una mostra?’”. Un anno dopo la galleria ha aperto l’esposizione in corso in questi giorni.
A New York l’artista era stato incluso in altre due mostre, entrambe nel 1992, anno della sua morte. La prima alla Ganymede Gallery e la seconda, che non fece in tempo a vedere, al Leslie-Lohman Museum of Gay and Lesbian Art. “Di fatto era un’artista che finora non esisteva” ‒ dice ancora Fabio Cherstich ‒, “che al tempo dipingeva qualcosa che era completamente controtendenza rispetto a quello che andava di moda. Faceva una pittura narrativa e iper figurativa. E, soprattutto, ritraeva luoghi in cui stavano morendo tutti di AIDS e che quindi erano visti come luoghi della peste e non legati a un possibile fine commerciale. Fa eccezione nella sua carriera un’acquisizione importante fatta da David Hockney che, all’inizio degli Anni Novanta, aveva comprato sei tele di Angus dopo aver visto la sua mostra, controversa e censurata, al Santa Barbara Institute of Art, in occasione della quale i due si erano conosciuti e avevano trascorso un pomeriggio insieme. Hockney per lui era un punto di riferimento, era l’artista che, insieme a Picasso, aveva più studiato. È bello pensare che in questi giorni ci siano in contemporanea a New York una mostra di Angus e una di Hockney, alla Morgan Library, attraverso le quali si può vedere il filo che accomuna i due lavori: Angus ha assorbito tantissimo dal maestro”.
È bello anche pensare che a questa storia a lieto fine, le cui maglie si sono intrecciate fra un lato e l’altro dell’oceano, abbia avuto tra i protagonisti degli italiani che, guidati dalla passione, hanno contribuito a riscoprire un artista così americano.
‒ Maurita Cardone
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