L’arco “borbonico” e il patrimonio a rischio nella città di Napoli
Nel mese di gennaio, a Napoli sono avvenuti due crolli a distanza ravvicinata: hanno riguardato l’arco borbonico e un edificio annesso a una chiesa barocca. Quali le cause? Quali le modalità d’intervento? Il tema è stato al centro di un recente webinar, del quale ripercorriamo gli esiti.
Il 27 maggio 2020 la Soprintendenza di Napoli impone all’Autorità Portuale la messa in sicurezza e il restauro del cosiddetto “arco borbonico”, prospiciente il lungomare, da presentare in trenta giorni. Da circa due anni che i cittadini segnalavano lo stato di equilibrio precario di questa testimonianza architettonica dell’antico molo. La messa in sicurezza avverrà soltanto a settembre 2020. L’arco resiste alla prima mareggiata, avvenuta a fine dicembre scorso, ma purtroppo non a quella del successivo 2 gennaio. Ne consegue un rimpallo della responsabilità tra le autorità competenti, che avrebbero potuto impedirne la rovina. Di questi aspetti e delle possibili azioni da intraprendere, per evitare futuri crolli in città – l’ultimo, risalente al 20 gennaio, ha interessato la chiesa del Santo Rosario a piazza Cavour – si è dibattuto nel corso di un recente webinar promosso dall’Associazione Culturale Musae, che si occupa di tutela, promozione, recupero e valorizzazione dei beni di interesse artistico, storico, culturale e paesaggistico. A moderarlo il dott. Francesco Carignani, Consigliere della Municipalità 1 di Napoli, con relatori i professori Renata Picone e Alessandro Castagnaro del Dipartimento di Architettura di Napoli. La storia.
– Carlo De Cristofaro
LA STORIA DELL’ARCO BORBONICO E IL CROLLO “ANNUNCIATO”
A descrivere l’inquadramento storico dell’arco è stato il Prof. Castagnaro, docente di storia dell’architettura dell’ateneo fridericiano e presidente dell’Aniai (Associazione Nazionale Ingegneri ed architetti Italiani) della Campania. Castagnaro ha ricordato come esso fosse, in realtà, di fondazione post-unitaria e «legato ad una delle strade più belle al mondo (via Caracciolo)», che non era ancora quell’attuale. Nel 1869, a seguito di una prima epidemia di colera, si rese, infatti, necessario espandere la città verso ovest, avviando la colmata a mare che ha inglobato parte delle strutture dell’arco. Tale struttura sorreggeva un piccolo approdo per i marinai della vicina baia di Santa Lucia e sorgeva in prossimità dello scolo a mare della cloaca cittadina, da cui deriva il soprannome “chiavicone” affibbiatogli dai napoletani. Con l’operazione di ampliamento si fece viva anche la necessità di potenziare i collegamenti, cui doveva adempiere il nuovo asse viario del lungomare. Questo portava la firma del noto architetto Errico Alvino (1809-1876) e dell’ingegnere del Comune di Napoli, Gaetano Bruno (1844-1909). A lui si deve la progettazione delle banchine di protezione, a sezione parabolica, che assieme alle scogliere soffolte, avrebbero dovuto smorzare i moti ondosi. Che le correnti da sud-ovest fossero particolarmente violente in quei punti era già noto al tempo di Bruno e infatti questi ne parla in una sua pubblicazione del 1884, citando i danni riportati al Chiatamone e al molo San Vincenzo dalle mareggiate di fine Ottocento. Mareggiate che nemmeno oggi hanno risparmiato queste aree della città. Sulla scorta di queste note, Castagnaro ha ribattuto «l’importanza di conoscere la storia delle città per evitare nuovi disastri».
COME INTERVENIRE ORA SULL’ARCO BORBONICO?
Sul progetto di restauro è intervenuta, invece, la Prof.ssa Renata Picone, docente di restauro e direttrice della Scuola di Specializzazione in Beni Architettonici e del Paesaggio della Federico II. È stato ricordato come, per la sua stessa natura, il restauro di un’opera possa essere paragonato a un intervento chirurgico, al quale si è costretti a ricorrere in extrema ratio. E di come sia invece preferibile avviare attive politiche di salvaguardia, attraverso la manutenzione ordinaria del manufatto. Aspetto quest’ultimo difficile da comprendere per la nostra «cultura dello straordinario». A sostegno di ciò Picone ha citato il pensiero di Ruskin nelle Sette Lampade della Architettura: «prendetevi cura dei vostri monumenti e non avrete bisogno di restaurarli». Ciò non è avvenuto per l’arco borbonico per il quale, attualmente, si può solo intervenire attraverso un processo di anastilosi, preceduto dal recupero e numerazione dei conci crollati, seguito poi da operazioni di riposizionamento attraverso laser scanner 3D. Su richiesta di Carignani, a proposito dell’importanza di restaurare un monumento la docente ha definito un intenso passaggio nel quale, ricollegandosi anche al pensiero di Roberto Pane (1897-1987), ha sostenuto come i monumenti siano «luoghi dell’equilibrio psicologico, punti di riferimento per guardare al futuro con maggiore spessore».
QUAL È LO STATO DEL PATRIMONIO ARCHITETTONICO A NAPOLI?
«Le condizioni sono critiche, tutte». Ha così asserito il Prof. Castagnaro. E, ancora, «non si può più restare in contemplazione del patrimonio, che è costituito anche dal paesaggio, […] le condizioni sono per lo più di abbandono». Ciò vale sia per il centro antico (teatro di via dell’Anticaglia, gli Incurabili, ecc.) che per la città moderna (un caso tra tutti il polo fieristico della Mostra d’Oltremare, che recentemente ha compiuto 80 anni). Le cause scatenanti sono, secondo il docente, molteplici: in primis, un diffuso scarso livello culturale che spinge all’abusivismo; in seconda battuta la mancanza di controllo, cui spesso si accompagnano iter di verifica troppo macchinosi e lenti: «Se tutto il sistema fosse più snello, avremmo meno abusivismo in città». Alla domanda di Carignani se la condizione attuale sia legata all’assenza d’idee o di fondi, Castagnaro ha ricordato la convenzione stipulata nel 2012 tra la Federico II e la Mostra d’Oltremare, finalizzata a bandire concorsi per progetti di restauro dell’insediamento fieristico. Purtroppo tutto è rimasto fermo, con la conseguenziale perdita dei fondi che avrebbero permesso di salvaguardare molte opere. Il docente ha, infine, anche menzionato il concorso, vinto nel 2014 dal compianto Prof. Marco Dezzi Bardeschi (1934-2018), per l’Ospedale della Pace (XVI secolo) con gli interventi ancora oggi non messi in essere.
LE OPERE ARCHITETTONICHE A RISCHIO A NAPOLI
Passando in rassegna una serie di opere significative per la città, apprendiamo quanto sia lungo l’elenco di quelle che rischiamo di perdere irrimediabilmente. Si pensi alle condizioni critiche in cui versano Palazzo Penne (XV secolo), il Sacro Tempio della Scorziata (XVI secolo), il Real Abergo dei Poveri (XVIII secolo, ancora oggi incompiuto e senza una destinazione d’uso predominante), ma anche la lavanderia borbonica dell’isola di Nisida (1815), la stazione Bayard della storica ferrovia Napoli-Portici (1839), Villa Ebe (1922) opera dell’architetto utopista Lamont Young (1851-1929). Il 20 gennaio scorso è avvenuto un nuovo crollo, che ha interessato un edificio annesso alla chiesa di Santa Maria del Rosario, a piazza Cavour: è stata trascinata parte della facciata del luogo di culto, fortunatamente senza causare vittime. La chiesa, di fondazione barocca, era stata danneggiata dal terremoto del 1980, che ne aveva portato alla chiusura e al conseguenziale abbandono e saccheggio. La riapertura al culto, datata 2017, è però avvenuta senza essere preceduta da un restauro completo. A conclusione del dibattito conveniamo con quanto ribadito da Castagnaro, ossia quanto sia importante la conoscenza delle opere ai fini della manutenzione e della valorizzazione del patrimonio con destinazioni d’uso, come invece asserito dalla prof. Picone, compatibili con le caratteristiche storico-artistiche del manufatto e «calate nella contemporaneità». In questo modo sarà garantito il diritto della Comunità al Patrimonio come indicato dalla Convenzione di Faro.
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