Fase Tre (XIII). Consumo e arte contemporanea
“Mai come in questo momento si comprende che il consumo come rapporto privilegiato non favorisce certo l’arte, e probabilmente mai come oggi si affaccia una necessità ancora imprecisata e confusa di relazione diretta, di esperienza”. Christian Caliandro torna a parlare di arte contemporanea e Fase Tre.
Vediamo ora di definire un po’ meglio il “punto di rottura” accennato nella scorsa puntata, che certamente riguarda tutti i territori culturali ma forse influisce in maniera più profonda proprio sull’arte contemporanea.
La messa in discussione operata dalla situazione attuale di quelle che sono, o erano, le condizioni-base di produzione e di fruizione – ma anche di immaginazione – non si può separare da un’altra macro-condizione, che ha a che fare con i modi principali in cui l’opera viene percepita, vorrei dire accettata nel contesto degli ultimi anni. Questi modi convergono nel bisogno di “gratificazione immediata” esteso a una zona, quella dell’arte, che dovrebbe esserne piuttosto immune: è la questione della likeability e delle trappole dell’acting, di cui trattavano alcune delle precedenti serie di articoli.
Ne ha scritto diffusamente Bret Easton Ellis in Bianco (2019); lo scrittore Richard K. Morgan descrive molto bene questo processo fondamentale degli anni recenti in un pezzo che formalmente è dedicato alla ricezione del videogioco The Last of Us 2, ma che è possibile secondo me estendere di fatto all’opera contemporanea: “(…) un contenuto artistico maturo richiede un pubblico maturo, capace di confrontarsi con esso. E sfortunatamente la nostra attuale matrice culturale pare decisa a generare l’esatto contrario. Stiamo diventando, per dirla con scarsa eleganza, un branco di ragazzini viziati fin nel midollo, da non mettere in discussione o allontanare mai dalla loro zona di conforto, pena vederci fare le bizze. Un branco che esige la soddisfazione di ogni capriccio, in ogni momento, e che dà di matto quando ciò gli viene negato. Peggio ancora, il nostro intrattenimento è sempre più prodotto e confezionato per soddisfare questi stessi capricci, per sedare la rabbia e massimizzare l’assorbimento da parte dei consumatori a qualsiasi costo. I franchise dominano il panorama; il fandom è drogato a credere di essere il padrone della situazione. È una macchina ben oliata, fa un sacco di soldi e manda via la gente felice, o che almeno pensa di esserlo. A volte, lungo la strada, produce persino arte decente. Ma la maggior parte di ciò che fa è solo un prodotto, ed è colpa nostra” (Il peggio che resta di noi, “Il Foglio”, 16 agosto 2020).
La “attuale matrice culturale” di cui parla Morgan è il contesto da cui sembra che l’opera oggi non possa (mai) divincolarsi: la richiesta pressante e incessante della soddisfazione “di ogni capriccio, in ogni momento”, il rifiuto dello spettatore-consumatore di accettare ogni tipo di sfida che l’opera propone o anche impone, e lo scivolamento verso la zona dell’entertainment.
“La mancanza (l’assenza) della presenza delle opere d’arte, attraverso i dispositivi e gli apparati tradizionali della loro fruizione, aiuta credo a vedere meglio che cosa il nostro rapporto residuo con queste opere indica”.
Anche in questo caso, siamo di fronte a una trasformazione che era iniziata molto, molto prima della pandemia, e che è stata analizzata e indagata a fondo negli ultimi decenni: ma è interessante notare come questa fase-spartiacque faccia sempre emergere i fenomeni in tutte le loro conseguenze e sfaccettature, e sia capace di evidenziarne anche i collegamenti e le connessioni.
Vale a dire, la mancanza (l’assenza) della presenza delle opere d’arte, attraverso i dispositivi e gli apparati tradizionali della loro fruizione, aiuta credo a vedere meglio che cosa il nostro rapporto residuo con queste opere indica. E al centro c’è proprio l’insistenza su quella “gratificazione immediata”, cioè chiedere continuamente all’arte contemporanea quello che non le compete, e che appartiene ad altre zone: mai come in questo momento si comprende che il consumo come rapporto privilegiato non favorisce certo l’arte, e probabilmente mai come oggi si affaccia una necessità ancora imprecisata e confusa di relazione diretta, di esperienza.
Questo avviene perché tutti i conflitti, e le serie di idee, sembrano ormai da un anno spostati dal mondo esterno al nostro corpo e alla sua superficie, come ci avvertiva del resto Paul B. Preciado in modo visionario a proposito del tema della “sovranità”: “Ciò che viene oggi testato su scala globale attraverso la gestione del Covid-19 è un nuovo modo di interpretare la sovranità. Il corpo, il tuo corpo individuale, come spazio di vita e come rete di potere, come centro di produzione e di consumo di energia, è diventato il nuovo territorio in cui i violenti confini politici disegnati per anni sugli ‘altri’ vengono oggi espressi, prendendo la forma di misure di contenimento e di una guerra contro il virus. La nuova frontiera necropolitical si è trasferita dalla costa della Grecia alla tua porta di casa. Lesbo ora comincia sulla tua soglia. E il confine si restringe sempre di più attorno a te. Calais ti esplode in faccia. La nuova frontiera è la mascherina. L’aria che respiri deve essere solo tua. La nuova frontiera è la tua epidermide. La nuova Lampedusa è la tua pelle” (Learning from the Virus, “Artforum”, May-June 2020).
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro
Fase Tre (X). L’opera e il contesto
Fase Tre (XI). Aperture e imprevisti
Fase Tre (XII). Il punto di rottura
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