Molto spesso le attività più banali nascondono tendenze e fenomeni che hanno un impatto sulla nostra vita che a stento riusciamo a cogliere. Una di queste – a titolo di esempio utilizzerò un fatto personale – mi è capitata la scorsa settimana quando, in previsione di una visita, mi sono salvato i dati dell’appuntamento tramite lo screenshot della mail inviatami dal Servizio Sanitario. Niente di particolarmente rivoluzionario, né tantomeno eccitante direte voi, ma è proprio su questo che intendo soffermarmi.
Innanzi tutto facciamo chiarezza e definiamo cosa intendiamo per screenshot. Già denominato screencap o screengrab, per screenshot intendiamo un’immagine che mostra il contenuto dello schermo di un qualsiasi device, una definizione che rimanda quindi alla possibilità di catturare esattamente ciò che stai vedendo sullo schermo, salvarlo nella tua galleria e, eventualmente, condividerlo con altri o consultarlo in seguito.
LA STORIA DELLO SCREENSHOT
Adesso che abbiamo una definizione, tracciamone una breve storia, è sempre utile sapere la traiettoria passata, anche solo per tentare di delineare quella futura.
I primi screenshot di cui si ha notizia risalgono ai primi Anni Sessanta, per la precisione agli esperimenti portati avanti al MIT, Massachusetts Institute of Technology di Boston, all’interno del progetto Computer-Aided Design (CAD) ovvero la progettazione assistita da computer in cui si tentava di dimostrare quelle che erano le prime forme di interattività uomo-macchina. Gli screenshot erano quindi originariamente delle prove con cui dimostrare e pubblicizzare le nuove forme rivoluzionarie di utilizzo dei primi Personal Computer.
Quello che più o meno unanimemente è indicato come il primo screenshot non rappresenta, come molti potrebbero pensare, uno schema tecnico né tantomeno una mappa. Il primo screenshot risale al 1959 ed è un’immagine di una pin-up disegnata nel 1955 dall’artista George Petty per la rivista Esquire, ripresa da uno schermo video a tubo catodico dallo scatto di Polaroid dall’aviere di prima classe Lawrence A. Tipton, di stanza a Fort Lee in Virginia. L’aspetto da segnalare in questa immagine a prima vista così banale è che non è semplicemente l’immagine di una pin-up, ma è l’immagine di una pin-up visualizzata sullo schermo di un computer interattivo. Si tratta quindi di un passaggio epistemologico da documenti totalmente controllati dall’uomo a una realtà che possiamo definire come virtualmente testimoniata.
Fino agli Anni Novanta gli schermi dei computer sono rimasti oggetti non massivamente distribuiti nella popolazione e quindi non sorprende affatto che anche gli screenshot fossero rari e che nemmeno si sentisse la necessità di attribuire loro uno specifico nome.
In questi decenni i sistemi operativi dei computer non avevano funzionalità native atte a catturare gli screenshot. A volte le schermate composte originariamente da solo testo potevano essere scaricate in un file, ma il risultato catturava solo il contenuto testuale dello schermo tralasciando l’intero aspetto grafico, eliminando cioè il contesto e azzerando la funzione principale dello screenshot stesso ovvero la rappresentazione visuale dell’istante catturato.
La prima attestazione che abbiamo del termine screenshot risale al 1983 ed è attribuito al giornalista e divulgatore della game culture Bill Kunkel, già conosciuto per aver introdotto altri termini oggi entrati nel vocabolario comune come playfield, scrolling e, appunto, screenshot. Kunkel, personaggio tutt’altro che banale, inizia la sua carriera scrivendo di fumetti indipendenti e di wrestling per poi raggiungere una discreta fama come giornalista raccontando, celebrando e recensendo videogiochi per la rivista Electronic Games.
L’IMPORTANZA DELLO SCREENSHOT
Ma tornando alla falsa banalità di cui accennavo all’inizio, la domanda che sorge è perché una semplice immagine del nostro schermo è così importante?
A questo proposito, e riferendosi ancora alle prime forme di rappresentazione dell’interattività uomo-macchina, Steven Shapin nel 1984 parla di virtual witnessing, ovvero di testimonianza virtuale, ma ciò che mi interessa è sottolineare il ruolo dello screenshot nell’attuale spazio comunicativo. Gli aspetti da considerare a questo proposito sono in verità molteplici.
Innanzi tutto, la centralità delle immagini che riproducono gli schermi dei nostri device è testimoniata dalla giurisprudenza italiana che, con la sentenza n. 8736 del 22/02/2018 pronunciata dalla V Sezione della Cassazione Penale, ha affermato il principio secondo cui la riproduzione di uno screenshot rappresenta una prova legale a tutti gli effetti, a prescindere anche dalla sua effettiva autenticazione, chiudendo così, almeno per il momento, una spinosa vicenda che per anni ha alimentato numerosi contrasti tra giuristi e informatici.
È però da un punto di vista più pratico che lo screenshot dimostra una inaspettata capacità di penetrazione nel nostro agire quotidiano, basti pensare alle innumerevoli forme con cui lo utilizziamo ogni singolo giorno.
Lo screenshot è infatti un modo per (di)mostrare agli altri ciò che si sta facendo o vedendo, una forma di archiviazione o più banalmente una sorta di bloc notes con cui fissare – come nel mio caso – notizie relative a orari e appuntamenti. Lo usiamo per mettere al sicuro biglietti di viaggio da mostrare, mappe e indicazioni stradali, o, ancora, per mostrare al supporto tecnico del caso gli odiosi messaggi di errore o i problemi software.
È sempre attraverso uno o più screenshot che spesso, in mancanza di tempo, forniamo feedback ai colleghi su progetti o proposte o creiamo brevi e artigianali tutorial. Molti studenti universitari prendono appunti facendo screenshot di articoli e libri, altri lo utilizzano ingegnosamente per aggirare il limite dei 140 caratteri di Twitter, altri ancora per condividere commenti divertenti e/o oltraggiosi sui social media o, accostandosi alle tendenze più voyeuristiche, per pratiche di sexting o giochi erotici virtuali.
Se pensiamo a come l’azione di cattura dello schermo viene attivata sui computer Apple, tramite la fatidica combinazione di tasti Cmd-Shift-4 e il salvataggio come file dal nome “Schermata [DATA] alle [ORA]”, è chiara la similitudine con lo scatto fotografico, da qui infatti il suono simile all’otturatore della fotocamera. La metafora in questo caso è emblematica: non è un’attività di clonazione, è la cattura di un istante, uno fra gli infiniti possibili. È un’immagine di ciò che vedi qui e ora.
CHE COSA SONO I NO CONTEXT SCREENSHOT
Oggi si parla di no context screenshot, ovvero di screenshot senza contesto, fenomeno oramai divenuto un atto creativo deliberato che consiste sempre più spesso nello strappare un particolare momento dal suo contesto originale. Un’azione tanto virale quanto semplice e immediata grazie alle immagini più piccole e meno complicate di una GIF, immediatamente condivisibili su più piattaforme e straordinariamente veloci da realizzare.
Gli screenshot senza contesto, come gran parte di quella che Valentina Tanni definisce creatività amatoriale, sono oggi una parte consistente dei prodotti circolanti nel web e affondano le loro radici nelle pratiche distopiche e destabilizzanti delle avanguardie artistiche di inizio Novecento in cui il successo virale deriva dal modo in cui qualcosa si legge in modo completamente diverso una volta tolto dalle sue coordinate originali e riproposto in contesti nuovi, ancor meglio se distanti in termini di spazio, di tempo o di significante.
Non vi sono pertanto dei veri limiti a quella che potremmo definire screenshot culture, come dimostrano i molteplici ambiti di utilizzo che ho descritto in precedenza e di cui sempre di più si vedono le tracce anche e soprattutto nel conturbante mondo della memetica.
Tale mancanza di limiti potenziali all’utilizzo dello screenshot come linguaggio ha portato però taluni a porsi delle domande. Fra questi, per esempio, la piattaforma Snapchat che, per tentare di gestire il fenomeno, notifica l’avvenuta cattura dello schermo da parte degli utenti.
Alcune aziende invece ritengono lo screenshot una violazione del copyright sul loro programma in quanto deriva dai widget e da altre immagini da loro create per l’esclusivo utilizzo del software.
Indipendentemente dai problemi di ordine legale e di privacy, sempre più attuali in questo genere di fenomeni, risulta chiaro che tali utilizzi hanno e avranno ancora margini di sperimentazione e funzionalità, basti pensare allo stesso concetto applicato non all’immagine statica ma a quella in movimento e quindi alla registrazione video dello stesso schermo e delle attività che in esso vengono mostrate.
Si tratta quindi di immaginarsi un futuro anche in questo caso non privo di ulteriori sorprese e, come ho tentato di dimostrare, di non fermarsi all’automatismo con cui effettuiamo ripetutamente determinate azioni perché spesso, per non dire sempre, ci sono nascosti molti aspetti tutti da approfondire.
‒ Francesco Ciaponi
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