Exit strategy. I cinema di Napoli come nuovi contenitori d’arte

Napoli, anno due della pandemia. A riflettori spenti, otto luoghi della cultura, muti ma non morti, danno voce alla speranza. Tra mostra diffusa e format art, una collettiva nelle vetrine di cinema e teatri.

Cammini per strada e ti acceca la vita, anche quando non te l’aspettavi. Quelle teche vuote, polverose, dei cinema e teatri, senza più locandine, sono monito di strisciante inquietudine, vuoto e stasi, paradossalmente proprio in quella che più di tutte è arte in movimento, ospitata in architetture spesso storiche, strutture e simboli sociali di ritrovo e confronto, di cultura condivisa, più o meno “alta”. Dolorosa maquette della condizione tutta del Paese, e non solo. Ecco, e proprio da là, a tradimento, una volta tanto ti sorprende una bella notizia.

IL PROGETTO DI LUCAS MEMMOLA A NAPOLI

Spicca come luce gialla nell’ombra, e curiosità nuova dalla teca chiusa, quel fiore dalla roccia in 2049 di Lucas Memmola. È proprio a lui che diamo la parola per raccontarci il progetto cui ha dato vita, nella doppia veste di curatore e artista: “L’arte deve stare nelle persone. In essa ci deve essere forza, in modo tale che anche i non addetti ai lavori la guardino, e colgano”.
E difatti è l’arte che ti coglie insinuante, quando ti rendi conto che il fiore giallo non è isolato, ma fa parte di una mostra diffusa, in cui otto cinema e teatri partenopei trasformano le loro vetrine temporaneamente vuote in finestre espositive.
Veri e propri stargate, soglie su una nuova dimensione. Spalancata solo per il passante che avrà abbastanza coraggio e resilienza da spostarsi, dall’apatia della passeggiatina motoria pandemica al dubbio della perplessità curiosa, all’impegno di fermarsi, osservare, lasciarsi meravigliare dall’inaspettato dono di scoprire ‒ grazie ai QR che affiancano le opere ‒ di essere stato catturato dall’arte. Inganno benefico, da luoghi normalmente deputati ad altre funzioni mediatiche, e proprio per questo investiti di credibilità dall’uomo della strada, Jenny Holzer docet.
L’esito è una mostra unica, Covid-free, come la urban art gratuita, democratica e accessibile 24/7; ma con di diverso l’allure di luoghi rivestiti di velluto rosso e funzione socio-antropologica mondana e culturale. Ma anche di speranza, quella che si accende da sempre con i riflettori sull’immaginazione, che è madre di futuro.

Exit Strategy. Mary Baldassarre. Teatro Totò, Napoli 2021

Exit Strategy. Mary Baldassarre. Teatro Totò, Napoli 2021

GLI ARTISTI IN MOSTRA NELLE TECHE VUOTE DEI CINEMA

E così, si transita dal travaso metalinguistico di Memmola, in cui il dipinto proviene da frame cinematografici, alla nostalgia intimista e biografica di Dafne y Selene post-Tracey Emin in bianchi manzoniani, alla silenziosa impotenza in lucida sospensione di Carmela De Falco (vedi Adrian Paci, ma anche le calzature-ritratto e testimonianza nell’arte più o meno vicina, tra van Gogh, Jota Castro e Sislej Xhafa), e ai vuoti evocativi alla Candida Höfer delle ricognizioni delle assenze in Serena Petricelli. Se Gabriella Siciliano vince la sfida di rifunzionalizzare come ordito una difficile grata di accesso, con pregnanza tematica e formalizzazione accattivante multisensoriale che ricorda il padiglione islandese dell’ultima Biennale, il Collettivo DAMP e Clarissa Baldassarri creano un prisma concettuale di tautologie e riverberi di senso giocando sulla trivalenza vetrina/monitor/schermo delle teche. Che invece tornano univocamente a celebrare il sogno cinema-mediatico nelle citazioni, rispettivamente colte alla Bacon o pop alla Giuseppe Stampone, di Andrea Bolognino e Mary Baldassarre.

RISPONDERE ALLA PANDEMIA

Una selezione compatta e non monocorde di giovani ma consapevoli artisti (età massima trentuno anni), con la quale Lucas risveglia coscienze e combatte rassegnazioni di produttori e fruitori d’arte, tesse reti di partner culturali, fermenta e attiva risorse. Dando mostra di manipolare tessuti urbani e sociali come materia prima, e viva, alchemica ed energetica come nella sua ricerca: tutta la città come opera, in realtà, e la curatela quasi come format art.
Che se Thierry Geoffroy, più di un decennio fa, declinava come Emergency Room ‒ o il più glocal esperimento di Federico Del Vecchio e Ala Roushan come Flip Project Space –, deve oggi però rispondere a ben peggiori emergenze mondiali. “Perché l’arte deve cogliere necessità, altrimenti è solo onanismo”. Esattamente quelle colte dai tanti occhi-vetrine che in Exit Strategy improvvisamente ti guardano dal corpo cittadino e interpellano, in un passo quotidiano che sa sempre più di trincea. Ricordandoci che la prima minaccia alla vita è la rassegnazione dell’impulso generativo, non la sua strategia di continua e organica trasmutazione.

Diana Gianquitto 

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Diana Gianquitto

Diana Gianquitto

Sono un critico, curatore e docente d’arte contemporanea, ma prima di tutto sono un “addetto ai lavori” desideroso di trasmettere, a chi dentro questi “lavori” non è, la mia grande passione e gioia per tutto ciò che è creatività contemporanea.…

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