Acqua e arte. 6 opere alla Galleria Franco Noero di Torino
Da Giovanni Anselmo a Lara Favaretto a Jason Dodge. Un focus su alcune delle opere esposte nell’ambito della mostra collettiva torinese dedicata all’acqua.
La galleria Franco Noero ospita l’acqua, prima di una serie di mostre dedicate al tema acquatico che si svolgono nelle sedi delle gallerie che hanno aderito al progetto Galleries Curate: RHE. Questo gruppo informale di gallerie d’arte contemporanea, provenienti da tutto il mondo e formatosi in seguito alla crisi globale causata dal COVID-19, si concentra sul senso di comunità, solidarietà culturale e interazione cooperativa attraverso mostre “collaborative” progettate per esprimere un dialogo dinamico tra programmi individuali di diversa natura. RHE è il primo capitolo di questa collaborazione: una mostra e un sito web incentrati su un tema universale e unificante: l’acqua – perché “come la cultura, l’acqua non è mai statica ma sempre in movimento”. Con la collaborazione della galleria Tucci Russo, di Torre Pellice/Torino e Rodeo Gallery di Atene/Londra, la galleria con sede in via Mottalciata 10 B – e con un interessante affaccio al piano terra in casa Scaccabarozzi, situata all’angolo tra corso San Maurizio e via Santa Giulia, comunemente chiamata “Fetta di Polenta” per la sua forma insolita e considerata un’opera d’arte performativo-urbanistica pulsante per la città sabauda – non si è tirata indietro nell’impresa, proponendo una collettiva dalle movenze poetiche e sociali odiernissime. Ecco alcune delle opere che abbiamo apprezzato maggiormente.
‒ Federica Maria Giallombardo
GIOVANNI ANSELMO, OLTREMARE ALL’ORIZZONTE APPARE, 1979-2021
“Il colore non è solo un fenomeno naturale, ma una costruzione culturale complessa che rifugge le generalizzazioni. La storia dei colori può essere soltanto una storia sociale”; così Michel Pastoureau introduce il suo celeberrimo saggio Blu. Storia di un colore a proposito del senso dello studio delle cromie (anche e soprattutto) nelle opere d’arte dalle origini dell’uomo a oggi. L’opera di Giovanni Anselmo racchiude in sé la storia di un colore impiegando la tonalità più preziosa – era economicamente dispendioso far arrivare i lapislazzuli da “oltre mare” – e simbolicamente ambita – dal cielo stellato al manto della Madonna – dell’arte, il blu oltremare, per omaggiare la grande pittura e per smaterializzarla e renderla incommensurabile, senza il confine della forma. Giocando altresì sulla doppia valenza linguistica di varietà di blu e di avverbio di luogo, l’opera suggerisce una duplice lettura, contestuale e ideale, che sembra rimbombare e che dona una profondità ricca di stimoli nello spazio bianco della galleria. Un contributo fondamentale per un allestimento di simile molteplicità.
JASON DODGE, SENZA TITOLO, S.D.
Avevamo già potuto apprezzare (con non poche riserve da parte di molto pubblico) le precedenti installazioni di Jason Dodge – una delle quali esposta presso la ex sede della galleria Noero in piazza Carignano. All’interno del cortile dello spazio, disposti lungo i bordi e al centro, si trovano i 200 barattoli di vetro parte dell’ultima installazione senza titolo e senza data dell’artista statunitense: a metà tra le provette chimiche e i recipienti per l’acqua piovana, i barattoli sono pronti ad accogliere le variazioni ambientali, a farsi dilatare dalla luce solare e/o a lasciarsi scalfire dalle avversità esterne. Come ha scritto cripticamente lo stesso artista, “può esserci una combinazione di come e cosa rimane in giro (effetto Droste). Vasi di vetro per cibo conservato, il corpo / i corpi. Quando rimane qualcosa, è urgenza? Ricordo di aver sentito una conferenza nel 1992 sui rave come spazio di alienazione collettiva, mi sento / mi sentivo bene”. L’opera rappresenta una sorta di “marchio di fabbrica” non solo dell’artista, ma anche della fucina stilistica della galleria.
LARA FAVARETTO, DO NOT CROSS, 2013
Giovanni Pascoli, in controcanto alla “siepe” dell’Infinito leopardiano, compose La siepe: “E tu pur, siepe, immobile al confine, / tu parli; breve parli tu, che, fuori, / dici un divieto acuto come spine” (vv. 33-35). Altrove, come in Nebbia, il poeta prega di non scorgere (e quindi di non conoscere) la realtà oltre il confine delle cose quotidiane, rassicuranti in quanto autentiche, veritiere e lampanti: “Nascondi le cose lontane, / nascondimi quello ch’è morto! / Ch’io veda soltanto la siepe / dell’orto, / la mura ch’ ha piene le crepe / di valerïane” (vv. 7-12).
In dialogo con l’opera di Anselmo, Do not cross di Lara Favaretto è una metafora che echeggia il concetto di limite, di ostacolo fisico e mentale oltre al quale si staglia un orizzonte ipoteticamente infinito. Un tubo orizzontale avvolto da un filo di lana celeste che lo inciela, con due estensioni di ferro dalla patina rugginosa che spingono contro pareti opposte: nonostante la durezza del materiale e l’esasperazione della sua resistenza, la scultura appare indubbiamente proporzionata, svettante, delicata e armoniosa. La barriera non può essere attraversata, come dichiarato dal titolo, e impedisce al visitatore di procedere; ma la disfida dello sguardo consiste proprio nell’avvicinarsi progressivamente senza varcare mai la soglia del mondo sconosciuto, stando al di qua dell’infinito (della possibilità).
JAC LEIRNER, SKIN (JUICY JAY’S COTTON CANDY KING SIZE SLIM), 2013
Le opere di Jac Leirner sono concepite sulla base di processi di accumulazione, catalogazione, ripetizione e ordine: gli oggetti vengono così riformulati, spogliati dalle loro funzionalità ordinarie e osservati quali matrici di un’orchestrazione fondata sulla successione con la minima mediazione possibile. Skin (Juicy Jay’s Cotton Candy King Size Slim) reitera la forma rettangolare delle cartine per sigarette (al sapore di zucchero filato) alludendo al colore, alla trasparenza e al movimento ondulatorio e increspante dell’acqua. Quello di Leirner è stato definito “minimalismo oggettivo”; ma per andare in profondità si svisceri l’etichetta quale “oggettuale serialismo sinestetico” – una ritualità musicale, tattile e visiva; ma anche gustativa, se si pensa al sapore delle cartine e della nicotina. In mostra sono esposte anche Splash e Lick, entrambe fotografie del 2021 che assecondano lo stesso principio di cui sopra: i titoli onomatopeici dichiarano il riferimento ai fluidi (anche corporei come la saliva); la trasparenza delle cartine e dei recipienti di plastica allude alla qualità principale dell’acqua; la brillantezza e la forma dei cucchiai d’acciaio ricordano gli spruzzi e le goccioline delle pozze. Un sistema che genera equilibrio speculativo e appagamento estetico.
ROBERT MAPPLETHORPE, WAVES, 1981
Ripercorrere qui la straordinaria biografia personale e artistica di Robert Mapplethorpe sarebbe riduttivo se non impossibile; ecco perché si citeranno brevemente, in questa sede, i due meravigliosi scatti in mostra: Javier, un “Narciso dal di sotto in su”, si riconduce all’originale prospettiva ritrattistica del fotografo, effetto di uno studio sensibilissimo del peso e del movimento, della pittura e della scultura classica, dove bellezza, sensualità ed edonismo sono i soli detentori della verità – e la verità non può che essere espressa con una raffinata sintesi delle tre componenti. Waves è un drammatico frammento di paesaggio; una natura morta-in-vita che evoca magicamente la sensazione “materiale” del mare, il suo volume e la sua carica rinnovatrice e distruttrice. Inutile scrivere che meritano di essere ammirati.
SIMON STARLING, BY NIGHT THE SWISS…, 2005
L’opera che circonda la maggior parte dello spazio espositivo e che in qualche maniera innerva l’intera mostra è quella di Simon Starling, composta da 21 foto in bianco e nero stampate ai pregiati sali di platino/palladio, realizzata dall’artista in occasione della mostra personale dedicatagli dal Kunstmuseum Basel, Museum für Gegenwartskunst nel 2005.
Il titolo descrive l’interessante gioco di scatole cinesi e rimandi alla base della serie: la “Grand Dixence” è la diga svizzera costruita negli Anni Cinquanta oggetto del primo cortometraggio di Jean-Luc Godard, Opération Beton, e soggetto di una serie di sette foto di Christopher Williams, a loro volta fotografate da Starling. Se non bastasse il gioco metafotografico (fotografie che immortalano fotografie), si aggiunga quello metaconcettuale: la diga svizzera produce e vende elettricità durante il giorno a un prezzo maggiorato rispetto a quello pagato di notte per pompare acqua nei propri serbatoi; in modo analogo, l’artista non solo ha fotografato le immagini di Williams nei magazzini in cui sono attualmente custodite, virtualmente riportandole in Svizzera dove erano state scattate; ma ha anche “gonfiato” il valore della sua opera scegliendo la stampa ai sali di platino/palladio, una tecnica di stampa più dispendiosa rispetto a quella delle fotografie originali, che erano stampate ai sali d’argento. “Ciò rappresenta la volontà dell’artista di riflettere sia sulle nozioni di scarto di valore che sulle qualità ‘materiali’ delle foto, per la cui stampa è necessaria una ingente quantità di metallo estratto in miniera e transitivamente di energia”.
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