Fase Tre (XVII). Smarginatura e consapevolezza

“L’opera d’arte che è capace di fuoriuscire dal recinto stretto pensato per lei, è in realtà solo un pretesto – un modello, un esempio – per qualcosa che ha a che fare con il modo in cui percepiamo noi stessi in rapporto al mondo e agli altri. Ci indica come fuoriuscire da noi, come non rinchiuderci più in steccati che sono artistici, culturali ma soprattutto esistenziali”. Il nuovo capitolo della serie di mini saggi di Christian Caliandro sulla Fase Tre.

Una cosa che continua a frullarmi nella testa, e che mi ha detto Alessandro l’altro giorno, è che ciò che facciamo, pensiamo, scriviamo non necessariamente serve a noi o a chi ci sta intorno, nell’immediato. Alla situazione attuale, a ciò che ci riguarda più da vicino. Magari, sarà utile in futuro, nella distanza, a persone che forse neanche ci conoscono o ci conosceranno.
Un’idea del genere è difficile da accettare, perché presuppone almeno in parte il prescindere da se stessi, dalla propria vita, dalla propria individualità (nega cioè radicalmente Ioioio). Un rivolgersi e un aprirsi a un altro e a degli altri che neanche sono visibili al momento, neanche esistono forse, e che comunque non sembrano raggiungibili: provare quindi a uscire dallo schema della fruizione immediata e della gratificazione immediata, che sembra onnipresente e regolare al momento ogni passaggio e ogni dinamica culturale.

APERTURA E IDENTITÀ

Le implicazioni di questo processo sono molteplici e profonde. Si tratta sempre, infatti, della questione di una struttura totalmente aperta e sfrangiata, che non si definisce in opposizione al “resto”, per esclusione, ma che lo fa con, insieme, per inclusione e aggiunta costante; e che in questo non vede affatto un pericolo per la propria identità, quanto piuttosto una ricchezza e un’opportunità – in ultima analisi, l’unico vero modo di esistere come identità.
Ed è chiaro che questa forma di consapevolezza passa per un disagio e un trauma, laddove la forma ‘esclusiva’ appare più comoda, più facile, più percorribile. Ce lo ha insegnato Elena Ferrante con la sua “smarginatura”, che a partire dal racconto dell’esperienza di Lila durante la notte di Capodanno del 1958 (“Fu – mi disse – come se in una notte di luna piena sul mare, una massa nerissima di temporale avanzasse per il cielo, ingoiasse ogni chiarore, logorasse la circonferenza del cerchio lunare e sformasse il disco lucente riducendolo alla sua vera natura di grezza materia insensata. Lila immaginò, vide, sentì – come se fosse vero – suo fratello che si rompeva”) diventa un concetto estremamente complesso, e un’idea alternativa di percezione del mondo da parte del soggetto. La smarginatura annulla i confini visibili tra io e realtà, in modo terribile ma che apre a una nuova coscienza di sé.

Provare quindi a uscire dallo schema della fruizione immediata e della gratificazione immediata, che sembra onnipresente e regolare al momento ogni passaggio e ogni dinamica culturale”.

In questa esperienza molto dura che tutti stiamo affrontando, sono molte le suggestioni che puntano in questa direzione, verso questa apertura. È qui che convergono le riflessioni che negli ultimi anni si possono ricondurre per esempio ai movimenti Black Lives Matter e MeToo: la definizione cioè di un’identità diversa, allargata, in grado di accogliere tutti gli elementi nel racconto e che riguardi davvero tutti.
È quello di cui parla Ta-Nehisi Coates, quando dice al figlio quindicenne che “una montagna non può essere tale se sotto non c’è niente da sovrastare”, e che questa idea è la base di una consapevolezza che non è più solo razziale, ma cosmica: “Tu e io, figlio mio, siamo quel ‘sotto’. Questo valeva nel 1776 e vale tuttora. Perché loro esistano devi esistere tu, e senza il diritto di spezzarti, non possono che precipitare dalla montagna, perdere il loro stato divino e rotolare fuori dal Sogno. A quel punto, allora, dovrebbero decidere come costruire i loro sobborghi su qualcosa che non siano ossa umane, in che modo concepire le loro prigioni come qualcosa di diverso da recinti per il bestiame, come fondare una democrazia che non preveda il cannibalismo. Ma dato che si credono bianchi, piuttosto di farlo permettono che un uomo venga stretto al collo fino a soffocare” (in Tra me e il mondo, Codice Edizioni, Torino 2016, pp. 136-137).
Perciò, l’opera d’arte che è capace di fuoriuscire dal recinto stretto pensato per lei, è in realtà solo un pretesto – un modello, un esempio – per qualcosa che ha a che fare con il modo in cui percepiamo noi stessi in rapporto al mondo e agli altri. Ci indica come fuoriuscire da noi, come non rinchiuderci più in steccati che sono artistici, culturali ma soprattutto esistenziali, in un dialogo continuo tra arte e vita che poggia indubbiamente su ciò che è stato realizzato nel passato recente, ma che è anche in grado di indicare e praticare strade differenti e adatte al presente.

Christian Caliandro

LE PUNTATE PRECEDENTI

Fase Tre (I). L’opera e la realtà
Fase Tre (II). Essere l’altro
Fase Tre (III). La paura e gli interstizi
Fase Tre (IV). Crisi e rinascita
Fase Tre (V). Ricordi e postapocalisse
Fase Tre (VI). Che cosa rimane
Fase Tre (VII). Imprevisti e responsabilità
Fase Tre (VIII). Rompere il silenzio
Fase Tre (IX). La percezione del futuro
Fase Tre (X). L’opera e il contesto
Fase Tre (XI). Aperture e imprevisti
Fase Tre (XII). Il punto di rottura
Fase Tre (XIII). Consumo e arte contemporanea
Fase Tre (XIV). La reazione dell’arte
Fase Tre (XV). Cosa vogliamo dall’arte
Fase Tre (XVI). Liberarsi del passato

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Christian Caliandro

Christian Caliandro

Christian Caliandro (1979), storico dell’arte contemporanea, studioso di storia culturale ed esperto di politiche culturali, insegna storia dell’arte presso l’Accademia di Belle Arti di Firenze. È membro del comitato scientifico di Symbola Fondazione per le Qualità italiane. Ha pubblicato “La…

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