Ritratti al sangue. Riflessioni sull’estetica della morte

Dai dipinti con le teste mozzate ai calchi riempiti di sangue di Marc Quinn, l’estetica dei ritratti sanguinolenti è una costante nella storia dell’arte. Marcello Faletra si interroga sul perché.

Lungo tutta la storia della rappresentazione in Occidente, il sangue ha agito da medium di comunicazione visiva. Dalla condizione estatica barocca (Caterina da Siena, Ludovica Albertoni, Corneille ecc.) a quella estetica dell’orrore sublime di Burke, si delinea il rapporto tra culto del sangue e ritratto. Il sangue che cola dalla testa mozza di Luigi XVI inaugura una nuova concezione del ritratto. Un’immaginazione avida di cadaveri, attratta dalle teste mozzate, curiosa di vedere ventri squarciati, invade la letteratura e l’iconografia dell’arte, che coesiste ai paesaggi idillici e alle immaginarie arcadie.

I CALCHI DI MARC QUINN

Il patibolo al modo di un rituale coniugava libertà e terrore, i cui esiti estetici non mancano ancora oggi di avere forti ripercussioni. È nota la serie di autoritratti di Marc Quinn dal titolo Self. Si tratta di calchi della sua testa, nei quali ha versato il suo sangue. Ogni cinque anni ha rinnovato l’operazione di colatura del sangue in un nuovo calco, documentando il processo di d’invecchiamento avvenuto. I ritratti al sangue di Quinn, esito ultimo dell’ecce homo, non cercano qualcuno, non si scambiano con altri, e neppure informano su uno stato d’animo. Ma qui il sangue si tramuta in feticcio: diventa la forma costante che nel tempo stabilisce non l’identità dell’artista ma il suo simulacro. L’unico segnale che rimandano è la constatazione che il ritratto non è più la trascendenza di una vita, ma l’immanenza della morte. Quando è stato chiesto a Quinn se, una volta morto, sarebbe disposto a esibire la sua testa mozza in una teca, non ha esitato ad acconsentire.

Arnulf Rainer, Johann Wolfgang von Goethe dalla serie Totenmasken, 1982 © Arnulf Rainer - Tate

Untitled (Death Mask) 1978 Arnulf Rainer born 1929 Purchased 1982 http://www.tate.org.uk/art/work/T03385

CADAVERI E MORTE

D’altra parte, i reliquiari trasformano i resti umani in opere d’arte. “Se moriamo, rimane un cadavere”, affermava Heidegger. L’anatomista e lo studente di medicina lo sanno bene. La parola morte per il filosofo è ancora un termine romantico ‒ cadavere è più appropriato: è solo cosa. Il positivismo della scienza, contro cui Heidegger si scagliava, ritorna però nell’impiego di quella parola ‒ cadavere – che è l’immagine materialista del macabro che popola le sale di anatomia dove si dissezionano cadaveri, come quelli descritti da Pasolini in Porcile, dove tra una birra e un’altra un nazista discute col padre del progetto di fare una raccolta di cadaveri di ebrei. In queste immagini, che transitano dall’arte alla filosofia, si assiste al trionfo del feticismo. Artisti, filosofi e poeti, come Mefisto, hanno sognato le aule di anatomia per sostanziare un pensiero e un’estetica, di cui l’immagine del cadavere è l’ultima maschera disponibile.
Dalla mano sanguinaria della notte invocata da Macbeth fino alle Totenmasken di Arnulf Rainer, l’estetica della morte non ha cessato di soddisfare le richieste dei suoi consumatori. La proibizione del suicidio avvalora la tesi che la rappresentazione della morte è schiava della sfera del valore – filosofico, poetico, estetico…

Marcello Faletra

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #58

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Marcello Faletra

Marcello Faletra

Marcello Faletra è saggista, artista e autore di numerosi articoli e saggi prevalentemente incentrati sulla critica d’arte, l’estetica e la teoria critica dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni: “Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea” (Solfanelli, 2009); “Graffiti. Poetiche della…

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