Wanda Rotelli Tarpino, l’addetta stampa delle più grandi case d’asta
Da Finarte a Sotheby’s, Wanda Rotelli Tarpino ha curato la comunicazione dei colossi del mercato internazionale. In questa intervista racconta il dietro le quinte di un mestiere complesso, fra grandi successi e qualche flop.
Tra ricordi e aneddoti, il mondo delle aste e il mercato dell’arte è letto con ironia e provocazione da Wanda Rotelli Tarpino, 68 anni, docente allo IULM di Milano, che per 35 anni ha gestito la comunicazione prima di Finarte e poi di Sotheby’s.
Da Francesco Micheli a Simon de Pury passando per Franco Zeffirelli e Barbara Piasecka Johnson, l’intervista a tutto campo descrive, con qualche rimpianto, i tic e le nevrosi di un sistema che si è radicalmente trasformato. Con una serie di episodi inediti, come quella volta che per esporre Mantegna a Mantova dovette scendere in campo il vescovo…
Dopo aver curato con rigore e autorevolezza l’immagine delle major, ora Wanda non rinuncia a togliersi qualche sassolino dalla scarpa e anticipa la pubblicazione del suo libro Lo Spettacolo dell’Asta.
Dal 1985 al 2020 sei stata il megafono del mercato dell’arte italiano e internazionale come responsabile della comunicazione prima per Finarte poi per Sotheby’s. Hai sempre deciso ciò che si poteva scrivere o non scrivere, scrupolosamente attenta a tutelare venditori e compratori. Oltreché a difendere gli interessi della società che rappresentavi. Insomma, per il mercato dell’arte sei stata come Rocco Casalino per i Cinque Stelle… In 35 anni è cambiato praticamente tutto. Siamo passati dal fax alle aste ibride. Cosa ricordi dei tuoi inizi in Finarte e come venivano realizzati i cataloghi delle aste?
La realizzazione dei cataloghi era forse il momento più creativo e istruttivo dell’intero processo. I quadri del magazzino, magicamente, diventavano figurine colorate delle quali si stabiliva la sorte in base alla grandezza della riproduzione in catalogo, la posizione in pagina, la successione. Fase delicatissima che richiedeva grande capacità di leggere in anticipo le tendenze del mercato seguendo un ordine che poi sarebbe diventato l’avvicendarsi dei lotti in asta. Tutto ciò poteva essere occasione di discussioni animate con gli esperti. Conoscere i meccanismi delle vendite pubbliche è fondamentale: ce lo ha insegnato Paul Durand Ruel, il grande mercante degli impressionisti salvato da sicura bancarotta grazie alle aste americane di fine Ottocento, un sistema che conosceva bene essendo stato per un breve periodo consulente dell’Hôtel Drouot di Parigi.
IL LAVORO PER FINARTE
Chi incontravi in Finarte?
Tra i colleghi Daria Porro, Alessandro Morandotti, Claudia Dwek e Amedeo Porro; tra i capi, Francesco Micheli e la sua efficientissima segretaria Baroncini detta Baron. A proposito di Micheli, ricordo che andava talmente di corsa che faceva le grandi piastrelle di marmo beige e color terracotta del salone centrale a balzi. Una volta, incrociandomi, mi disse: “Vorrei avere sette vite”. In Finarte, poi, nel tardo pomeriggio facevano capolino, a turno, intellettuali e storici dell’arte quali Giovanni Testori, Paolo Volponi, Giuliano Briganti, Federico Zeri, Mauro Natale, Osvaldo Patani. Quest’ultimo arrivava in piazzetta Bossi fischiettando, sempre abbronzato ed elegantissimo, vestito con colori sgargianti.
Qual è l’asta più spettacolare che ricordi?
La vendita della villa Ottolenghi-Wedekind di Acqui Terme nel 1985. Era un’asta enciclopedica che coinvolgeva architettura, pittura, scultura, progettazione del verde. Al cancello d’ingresso la magnifica coppia dei leoni di Monterosso di Arturo Martini; in cima alla collina la villa, con il giardino, il parco disegnato da Pietro Porcinai, il mausoleo affrescato da Ferruccio Ferrazzi, le architetture di Marcello Piacentini. E poi, dieci anni dopo, ricordo l’asta delle collezioni appartenute al margravio di Baden. Qui, nel castello di proprietà del casato, noi dello staff di Sotheby’s abbiamo vissuto per giorni. Oltre cento persone provenienti da tutti gli uffici europei: alla mattina presto, dopo i bagni termali, si saliva al castello alla spicciolata per lavorare ai preparativi dell’asta e ogni mattina il figlio del margravio, che parlava un ottimo italiano, passava a salutare con aristocratico sussiego questa piccola folla di suoi coetanei al lavoro. Noi degli uffici stampa, da New York a Ginevra, eravamo una decina; avevamo in dote gli spazi di una serra, poi si pranzava tutti insieme e si cenava (di buonora) nelle immense cantine del castello. Furono molti i fidanzamenti tra colleghi. Venne, infine, organizzata una maratona con una vendita che è durata oltre una settimana. Al rostro l’affascinante Simon de Pury, che batteva con aria da seduttore in quattro lingue; le signore erano tutte KO.
E il maggiore flop?
Nel 2001 da Sotheby’s l’asta delle scenografie di scena dei film di Franco Zeffirelli, con il quale ho trascorso insolite giornate tra cani e sculture di Jean-Antoine Houdon nella villa a Roma sull’Appia, per definire insieme il racconto della sua asta e del quale conservo una lettera di ringraziamenti molto affettuosa. Si trattava dei grandi arredi da set cinematografico, utilizzati per i suoi film più celebri come Giulietta e Romeo, Fratello Sole, Sorella Luna con mobili, oggetti di qualche suggestione ma non facili né da stimare né da vendere. Proposta nella sede di Milano, l’asta non venne capita e fu un flop con Zeffirelli rimasto molto deluso.
SOTHEBY’S E IL MERCATO
Quando sei arrivata da Sotheby’s qual era la situazione generale del mercato?
In piena crisi dopo la sparizione dei giapponesi, che qualche stagione prima avevano fatto man bassa dei van Gogh e dei Renoir a prezzi da capogiro. Ma queste cose le sai meglio tu.
Per Sotheby’s l’Italia non è mai stata una priorità. Una volta per difenderla hai persino minacciato le dimissioni.
Che nervi! Alle riunioni che si facevano a Londra il collega francese relazionava sempre prima di me. Ma quello che mi indispettiva di più era il fatto che generalmente tutti considerassero più importante una pagina su Le Figaro che una sul Corriere della Sera. E poi il famoso caso nel 1997 trasmesso dall’emittente Channel 4 che riguardava l’ipotesi di esportazione illecita da parte di Sotheby’s di un dipinto realizzato da Giuseppe Nogari, pittore veneziano del Settecento non certo tra i più rilevanti. La montatura di quel caso era stata frutto del cosiddetto giornalismo investigativo anglosassone. Sono stata al telefono ininterrottamente per due giornate e quando ho saputo che alla conferenza stampa organizzata in New Bond Street il capo di Londra aveva “dimenticato” di invitare i giornalisti italiani, gli diedi immediate dimissioni, sempre via telefono. Ovviamente il signore in questione corse ai ripari scusandosi.
I maligni dicono che la sede Sotheby’s Firenze serviva per raccogliere le opere antiche e mandarle all’estero. È vero?
Beh, l’ufficio fiorentino fu ampliato in occasione della storica vendita di Villa Demidoff del 1968 con i beni appartenuti al principe Paolo di Jugoslavia, la prima asta in Italia di Sotheby’s, che aveva coinvolto a Pratolino, vicino a Firenze, mercanti e collezionisti provenienti da tutta Europa. Molti dei lotti acquistati presero la via dell’estero. Ma pensa alle navi di Elia Volpi cariche di preziosi mobili e oggetti d’antiquariato che lasciavano l’Italia in pieno primo conflitto mondiale, per andare in asta a New York. Nel 1916, quella vendita totalizzò ben 1 milione di dollari. Del resto, oggi tanti collezionisti italiani preferiscono comprare sulla piazza di Londra, New York e Ginevra, piuttosto che a Milano.
Da Sotheby’s le aste italiane si sono sempre più rarefatte e nella strategia internazionale il Bel Paese è marginale. Perché?
Questo lo devi chiedere a Claudia Dwek, chairman di Sotheby’s Italia e del board europeo. Va detto, però, che oggi, con l’online, le aste organizzate dalla sede italiana sono cresciute di numero e probabilmente aumenteranno ancora. È vero che in Italia non ci sono vendite milionarie ma il mercato medio può trovare un ottimo punto di riferimento.
Nel 1999, anche per merito di Claudia Dwek, Sotheby’s ha ideato le Italian sale (l’anno dopo è arrivata Christie’s), che hanno rappresentato il trampolino di lancio per imporre l’arte italiana in ambito internazionale con valori prima inimmaginabili.
È stato un inizio divertente, ricordo le riunioni a Londra al reparto marketing (per alcuni anni gestivo, oltre alla stampa, anche il budget pubblicitario della sede italiana). Era tempo che gli esperti di moderno e contemporaneo avevano in mente il progetto di far crescere i valori dei grandi maestri italiani del Novecento, di gran lunga sottostimati rispetto agli americani, francesi, tedeschi. Era necessario, però, cogliere l’occasione propizia e questa capitò con l’Italian Festival di Londra del 1989-90 e l’affido a Sotheby’s di una straordinaria opera di Gino Severini proveniente dal Metropolitan Museum di New York. Delle Italian sale scrivo più diffusamente nel mio libro Lo Spettacolo dell’Asta che uscirà in autunno con Officina Libraria.
ADDETTI STAMPA E CASE D’ASTA
Nella tua lunga carriera, come si è modificato il rapporto con la stampa?
Completamente trasformato, non ci si vede più, poco telefono molte mail. Certo voi della stampa a suo tempo facevate più paura, così come peraltro noi addetti stampa.
Qual è la difficoltà di gestire la comunicazione per un grande gruppo come Sotheby’s?
Difendere l’Italia di fronte allo strapotere di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia, che nell’ambito del mercato dell’arte e del marketing sono decisamente superiori…
E da Sotheby’s qual è stato il momento più emozionante?
Il ritorno della Discesa al Limbo di Mantegna a Mantova, reso concreto grazie a un giornalista della Gazzetta di Mantova che mi mise in contatto con il vescovo della città. Era il 2003 e la proprietaria del dipinto, la grande collezionista Barbara Piasecka Johnson, aveva posto tra le condizioni per l’affido in asta il fatto che il capolavoro potesse soggiornare qualche giorno a Mantova, prima di essere battuto a New York. Si cominciò, dunque, a cercare affannosamente in città un luogo degno per proporre l’opera, ma ci fu una forte opposizione. Le istituzioni non volevano mescolarsi con il vil mercato. Dunque, l’ipotesi di esporre l’opera stava per sfumare quando ricevetti una telefonata dalla segreteria del vescovo di Mantova. Ero a Roma, pensai subito a uno scherzo, magari del team di arte contemporanea che mi sbertucciava per la mia passione verso l’antico. Invece no, era vero! Il vescovo offriva le sale del Museo Diocesano della città per esporre al pubblico l’opera. Nella mia dabbenaggine piemontese mi commossi e balbettai poche parole di ringraziamento. La Discesa al Limbo è tornata, seppur per qualche giorno, e lunghe file si crearono per entrare al museo che in molti non avevano mai visto prima di allora.
E quello più difficile?
Quando nel 2010, in seguito alle nuove strategie “per la qualità” e contemporaneamente con i primi passi del web, si fissò un valore minimo necessario per inserire un lotto in asta (3-5.000 euro, non ricordo esattamente). A quel punto interi dipartimenti, che tra l’altro facevano un buon lavoro, quali ad esempio quello dei libri antichi condotto da Filippo Lotti (dal 2000 managing director della sede italiana), furono smantellati e oltre 13 persone allontanate. Fu molto pesante, ma chissà cosa potrà accadere nel 2021 nelle sedi delle case d’asta di tutta Europa?
COLLEZIONISMO IERI E OGGI
Com’è cambiato il mondo del collezionismo, da Armand Hammer a Victoria Beckam?
Anche qui lo scenario è completamente mutato. Il sistema è tutto orientato verso la spettacolarità, togliendo sempre più spazio ai veri conoscitori. È piuttosto curioso come siano scomparse le aste di Old Master sostituite dalle generiche Master Week. Salvo qualche eccezione come le star Leonardo o Botticelli, l’arte antica è oramai una Cenerentola del mercato. Non è alla moda e non appare riconoscibile a un primo colpo d’occhio. Per collezionarla, poi, necessita tempo e nessuno sembra più averne.
E quali grandi collezionisti hai avuto modo di conoscere?
Per grandi collezionisti non intendo i raccoglitori di trofei conquistati a cifre altissime, ma i curiosi, i “maniaci”, gli ossessivi, quelli che dedicano tempo, studi e passione alla propria raccolta. Istintivamente mi vengono in mente due persone, Paolo Volponi, con la sua passione per Paul Brill e il Cinque-Seicento d’oltralpe, e quel grande, accuratissimo mercante-collezionista che è Cyril Humphris, di cui venne organizzata a Milano una mostra di presentazione dell’asta newyorkese del 1995. Passammo insieme lunghe giornate a guardare le sue “creature”, bronzi, sculture, arazzi rinascimentali. Purtroppo, però, Cyril trattava con i musei di tutto il mondo ma era assolutamente disinteressato alla cosiddetta copertura stampa a cui la sede di New York tanto anelava.
Le garanzie hanno trasformato radicalmente il meccanismo della gara in asta? Non credi che questo conduca a una distorsione del sistema?
Sono in atto da molti anni, ma oggi lo sono in forme sempre più articolate. Anche nel 2020, malgrado i totali siano complessivamente scesi, le garanzie sono cresciute in percentuale rispetto al 2019, i cosiddetti Financial Services interni alle case d’asta sono sempre più attivi e per me il tutto appare piuttosto incomprensibile. Negli Anni Cinquanta Peter Wilson, l’allora presidente di Sotheby’s, per avere in affidamento l’Adorazione dei Magi di Nicolas Poussin, garantì una cifra al venditore che in asta poi non venne raggiunta. Probabilmente, oggi, quelli dei reparti finanziari lo bacchetterebbero.
Chi sono oggi i tycoon del mercato?
Protagonisti del mondo finanziario e dei nuovi business delle comunicazioni digitali. Il mercato oggi è rivolto prevalentemente al cosiddetto luxury, che prevede denaro ma non richiede applicazione.
Chi decide oggi i prezzi delle opere d’arte?
Come sempre la domanda, che oggi è più opaca, anche se apparentemente più democratica.
DALLA CRYPTO ART ALL’ONLINE
Quale sensazione hai provato di fronte ai 70 milioni di dollari spesi per Beeple?
Cryptocollectors… chi?
Che cosa pensi della grande abbuffata che si consuma quotidianamente sui canali online?
Ho appena letto sul Financial Times un lungo articolo sul fatto che il sistema sia andato un filo in overdrive e su quanto gran parte dei collezionisti non ne possa più.
Per quale ragione hai deciso di smettere con il tuo incarico da Sotheby’s? Con la pandemia è definitivamente finita un’era?
Dopo 35 anni è auspicabile, credo per chiunque, un cambio di marcia. Mi auguro che al mio posto venga assoldato un giovane in gamba, appassionato d’arte, con idee e convinzioni proprie e che sappia tenere testa allo strapotere del marketing.
E cosa non rifaresti?
Ricordo con stizza le raccomandazioni ansiose che mi fecero da Londra in occasione dell’asta Corsini di Firenze: era atteso “a palazzo” da Londra il grande giornalista Godfrey Barker, che credo scrivesse per il Guardian. Giunse a Firenze a settembre 1994, in un completo di lino écru, come se stesse girando Camera con vista. Per lui trascurai Paolo Vagheggi, inviato di Repubblica a Firenze per la vendita Corsini. Lui, che ricordo con affetto e stima, era stato tra i primi a divulgare il mercato dell’arte attraverso le pagine di un grande quotidiano. Vagheggi fu anche il primo a intuire le potenzialità del web e contribuì a creare un sito ad hoc di cui divenne direttore. Mi sembra l’avesse chiamato La Repubblica dell’Arte. Purtroppo è scomparso troppo presto.
Hai qualche rimpianto?
Avrei potuto comprare qualche opera su carta in più. La mia piccola raccolta di fogli sarebbe oggi più articolata. Invece è rimasta un po’ smilza.
Oggi insegni Strategia delle Case d’asta nel tempo allo IULM di Milano. E se dovessi fare una previsione, quale trend prevedi?
Chi ha un po’ di discernimento di questi tempi fatica a far previsioni. Come scrive Marco Revelli nel suo Umano Disumano Postumano, un ibrido colossale, reale e virtuale mixati, ma con efferata technicality.
‒ Alberto Fiz
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