Studio visit. Intervista a Mattia Pajè
Mattia Pajè è nato a Melzo nel 1991. Diplomato all’Accademia di Belle Arti di Bologna, nel 2016 fonda con Filippo Marzocchi lo spazio Gelateria Sogni di Ghiaccio. Nel 2019 dà vita alla residenza Bagni d’Aria con Alice Visentin e Caterina Molteni. Dal 2018 è parte del collettivo nomadico Altalena. Saverio Verini l’ha intervistato.
Il primo incontro con Mattia Pajè è avvenuto a Bologna nel 2018, nel posto che è un po’ una seconda casa per lui, Gelateria Sogni di Ghiaccio. Il nome può trarre in inganno, visto che non si tratta di una vera gelateria, ma di uno spazio espositivo fondato da Pajè insieme a Filippo Marzocchi nel 2016, e che i due hanno messo a disposizione di altri artisti.
Questa curiosità per le altrui ricerche mi sembra un primo fatto importante; come se per Pajè fosse indispensabile circondarsi costantemente di idee e intuizioni. Di lui ho capito quasi subito che se non prova piacere – se non si diverte nel realizzare un’opera – c’è un’altissima probabilità che decida di dedicarsi ad altro. Credo che, in fondo, sia terrorizzato dalla paura di ripetersi.
Questa vocazione a una ricerca dagli esiti magari incerti – e proprio per questo più eccitanti – penso sia la sua cifra. Ma di cosa parlano le opere di Mattia Pajè? In estrema sintesi mi sembra di poter dire che esse esprimano soprattutto una condizione di meravigliosa fragilità, il loro essere sospese, talvolta incomplete, destinate a disfarsi. Una condizione che l’artista vuole condividere con l’osservatore, invitandolo a un rapporto fortemente esperienziale con le opere stesse e lo spazio dove vengono esposte.
Nel 2016 un amico, Stefano Volpato, mi parlò di un progetto che aveva curato nella campagna marchigiana. L’artista invitato, invece di pensare a una classica mostra nello spazio espositivo, aveva adocchiato un pollaio che si trovava nei pressi, organizzandovi una collettiva inaccessibile al pubblico, ma visibile soltanto alle galline. Quell’artista eri tu e il progetto, Hen House, mi rimase tatuato in testa.
In quel periodo ragionavo su quali potevano essere gli elementi che rendevano tale un’opera d’arte o una mostra. Organizzare una mostra per galline era un innocente tentativo di capire se un’esposizione potesse essere “valida” anche se nessun essere umano la poteva vedere. Ho fatto diverse prove anche con la totale assenza di pubblico, ma in quel caso il pubblico c’era: i pennuti interagivano eccome con le opere, i loro percorsi erano modificati e alcuni lavori sono stati addirittura “covati”. Le domande più frequenti di quel periodo per me erano: cos’è un’opera d’arte? Cos’è una mostra? Cos’è un artista? A cosa servono queste cose?
A tal proposito mi viene in mente una serie da te dedicata alle sequenze numeriche teorizzate dal ricercatore kazako Grigori Grabovoi. Ogni sequenza, secondo Grabovoi, avrebbe dei precisi effetti sulle nostre esistenze: concentrandosi sulle sequenze (leggendole, ripetendole, trascrivendole…) si possono “correggere” patologie e conseguire alcuni obiettivi. Ritengo queste ricerche del tutto inattendibili, ma mi affascina l’uso che ne fai.
L’utilizzo delle sequenze numeriche fa parte di un recente tentativo di attribuire alle opere una qualche funzionalità, per quanto latente. Guardo spesso alle pseudoscienze e ai metodi di cura alternativi, applicando queste tecniche e le loro estetiche alla produzione artistica. Non sono interessato a presentare tali teorie come soluzioni attendibili a problemi reali: mi interessa piuttosto la possibilità che l’opera possa essere “attiva” nei confronti dello spazio espositivo o dello spettatore.
L’ARTE DI MATTIA PAJÈ
Nel tuo lavoro rivedo certi guizzi à la Cattelan, ma anche la giocosità di Boetti e la sfida all’impossibile di De Dominicis. Mi fai il nome di un artista che stimi o di un’opera che ti ha toccato particolarmente?
Mi colloco volentieri nella posizione di fruitore del lavoro altrui. Un’opera che mi ha colpito negli ultimi anni è True Courtship Dance di David Horvitz. Durante la fiera Frieze New York nel 2016, Horvitz ingaggiò un borseggiatore per inserire delle piccole sculture raffiguranti dei cavallucci marini nelle tasche e nelle borse dei visitatori. Mi immagino le facce delle persone che trovarono quei piccoli intrusi tra i propri effetti personali.
Piccole e preziose: le sculture di Horvitz mi fanno pensare a una tua opera, Fatina. Così piccola da risultare quasi invisibile nello spazio espositivo.
Ricordo perfettamente la genesi di Fatina, nella storia ci sei anche tu. Era una notte di fine estate 2019 e ci siamo infilati in un bar sotterraneo nel quartiere di San Lorenzo a Roma, abbiamo ordinato due birre e iniziato a discutere della mostra che stavo preparando. Eravamo forse gli unici a chiacchierare, tutte le persone attorno a noi erano alle prese con i più disparati giochi da tavolo. A un certo punto è entrato un venditore ambulante. Ho acquistato per qualche soldo un anellino con una piccola stella marina argentata e l’ho subito indossato. Abbiamo continuato a discutere sulla mostra futura, concordando sul fatto che “mancava qualcosa”. In quel momento non sapevo di avere quel qualcosa al dito. Giorni dopo ho rimosso dall’anello il cerchio e fatto saldare alla stella un piccolo manico: l’anello era diventato una minuscola bacchetta. Fatina è poi entrata nella mostra, mi piace pensare a lei come a un tocco magico.
LE OPERE DI MATTIA PAJÈ
Quanto sono importanti questi tocchi magici per te?
L’estate scorsa mi è capitato di dover pensare a un intervento per un borgo in Abruzzo, Pereto, senza avere la possibilità di raggiungerlo fisicamente. Mentre chiacchieravo con un amico fuori dal mio studio, lamentandomi dell’impossibilità di fare un sopralluogo, è sbucato un ragno da una crepa nel muro. Abbiamo sorriso, fantasticando sull’idea di fare di quel ragno l’opera in questione. Il giorno dopo sono andato a leggere al parco. Dopo un po’ ho sentito una sensazione di solletico all’altezza della caviglia. Ho alzato il lembo dei pantaloni e ho trovato un piccolo ragno arrampicato sulla mia gamba. Ho catturato il ragno e l’ho allevato per un mese nella mia camera, poi l’ho portato a Pereto. L’ho liberato nel borgo e ho affisso una piccola targa con scritto: “In questo luogo nel luglio 2020 è stato liberato un ragno precedentemente catturato a Bologna”. Prima di tornare a casa, da Pereto sono andato a Roma per visitare nuovamente la mostra dove avevo installato Fatina. Avvicinandomi alla bacchetta magica ho notato che un piccolo ragno aveva fatto della scultura la sua casa temporanea. Mi sento molto fortunato nel poter osservare certi avvenimenti.
Tre opere da te realizzate che mostreresti a un passante per strada.
Do You Come Here Often?: trenta cocorite vive in un sito archeologico sotterraneo illuminato con luci UV. Nello stesso ambiente, dominato da una luce blu, dieci sequenze numeriche di Grabovoi in acciaio, allestite a diverse altezze. Chi va piano va sano e va lontano: un terrario rotondo con nove tartarughe, ognuna con una lettera sul carapace. Le nove lettere, tra le innumerevoli combinazioni, avrebbero potuto formare la parola “obiettivo”. Ciao: una coppia di figure ad altezza naturale abbracciate, fatte in argilla cruda. Nel tempo l’argilla si è crettata e, alla fine della mostra in cui sono state presentate, le sculture sono state distrutte.
‒ Saverio Verini
www.mattiapaje.com
www.gelateriasognidighiaccio.com
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #58
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