Si fa presto a dire “mentore” (anche nelle imprese culturali)
Termine particolarmente in voga, il mentoring può rivelarsi un ottimo strumento per le imprese culturali. L’obiettivo? Rendere le persone più consapevoli delle loro competenze e generare un dialogo paritetico fra collaboratori.
Mentore è un personaggio della mitologia, lo presenta Omero nell’Odissea: Ulisse, in partenza per la guerra di Troia, gli affida suo figlio Telemaco perché ne abbia cura e funga da guida in sua assenza. Sarà Atena, poi, in quella dimensione umanizzata delle divinità che come i terrestri amano, odiano, sperano, a prenderne le sembianze per occuparsi del figlio del suo protetto.
Dopo un lungo viaggio sulla macchina del tempo, mentore, oggi, ha perso la maiuscola e, nel solco della deonomastica (la disciplina secondo cui deonomastici o deonimici vengono oggi chiamati tecnicamente i nomi comuni derivati da nomi propri, che con riferimento a questo processo sono detti eponimi), si presenta come uno dei più intriganti approcci organizzativi. Bene lo sanno le impese for profit che da un po’ di tempo (devo dire non molto) stanno utilizzando il mentoring (nella trafila lessicale non poteva mancare la spinta e il movimento ing) quale modalità di apprendimento e “socializzazione organizzativa”.
MENTORING E PROSSIMITÀ
Se ci pensiamo, in moltissime imprese (anche culturali) coesistono tre generazioni a cui corrispondono forme di conoscenza e strumenti molto differenti tra loro: i millennial o generazione Y (nati tra il 1980 e il 2000), gli X (nati tra il 1960 e il 1980) e i baby boomer (nati prima del 1960 e ancora “attivi”). È del 2015 il film Lo stagista inaspettato con un Robert De Niro in versione decisamente resiliente mentre ha a che fare con Anne Hathaway nel ruolo di imprenditrice di successo. Lo scontro generazionale ‒ inevitabile ‒ produce però un contesto collaborativo e generativo per entrambi, così mentre l’attempato stagista dispensa con naturalezza suggerimenti sulle soft skill (autostima, fiducia, pazienza, attesa emotiva), riceve addestramento (pessimo termine ma comprensibilissimo) sulle competenze digitali e tecnologiche. Il tutto all’interno di un modello d’impresa che sempre più, con la maturazione degli attori in gioco (non solo i protagonisti quanto una fitta schiera di dipendenti, collaboratori e familiari) si configura in maniera semplessa, per citare Berthoz, sistematica e sistemica, arricchendosi di dinamiche decisamente giovevoli per il management, soprattutto in termini relazionali, di advocacy e welfare, ascolto attivo e apertura mentale, umiltà e disponibilità al cambiamento. Così, mentre il tempo rischia di agire a prescindere, con i senior che vedono allungare la loro permanenza, chiamati ad affrontare il delicato passaggio generazionale, e i più giovani accedono al mondo del lavoro in uno scenario fluido con limitate occasioni di autentico apprendimento esperienziale, il mentoring diventa una straordinaria opportunità per costruire un patto di prossimità, uno scambio di sguardi “inter pares” (reciprocal mentoring o mentoring collaborativo), una contaminazione vicendevole (mentoring), un apprendimento socializzante (mentoring inverso o reverse mentoring). Una relazione, quella tra mentor e mentee, che va ben oltre l’esigenza di colmare il gap generazionale legato al digital divide e allo smart working, o una generica differenza esperienziale, e che piuttosto sottende un rapporto in grado di accedere in maniera privilegiata e tempestiva alle reciproche conoscenze.
“Anche per le imprese culturali può divenire strategico un piano di mentoring che possa condurre a rendere le persone sempre più consapevoli delle loro conoscenze e competenze”.
In effetti torna attualissimo l’assunto pubblicato circa un anno fa sulla Harvard Business Review secondo il quale “modern (reverse) mentoring extends far beyond just sharing knowledge about technology; today’s programs focus on how senior executives think about strategic issues, leadership, and the mindset with which they approach their work”. Insomma, anche per le imprese culturali può divenire strategico un piano di mentoring che possa condurre a rendere le persone sempre più consapevoli delle loro conoscenze e competenze sviluppando una cultura a vasi comunicanti, fondata sulla fiducia, l’affidamento e la cura.
‒ Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #58
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