Dialoghi di estetica. Parola a Nuvola Ravera
Umanità e sistemi relazionali sono alla base della riflessione artistica di Nuvola Ravera, artista under 40 di origini genovesi qui intervistata da Davide Dal Sasso.
Formatasi presso le Accademie di Belle Arti di Genova e di Brera, la Cfp Bauer di Milano, la Hochschule für Grafik und Buchkunst di Lipsia e l’Università Iuav di Venezia, Nuvola Ravera (Genova, 1984) ha esposto e collaborato con varie istituzioni, tra le quali: Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, Torino; MACRO Asilo, Roma; Museo d’Arte Contemporanea Villa Croce di Genova; Il Lanificio ‒ Made in Cloister, Napoli, International Alliance of Inhabitant World Social Forum Tunisi; Fondazione BLM, Venezia; il Museo di Aveiro; Atelierhaus Salzamt, Linz; Fabbrica del Vapore, Milano; La Station, Gagliano del Capo; Museo Fattori Livorno.
In questo dialogo abbiamo messo in luce diversi aspetti della sua poetica e alcuni dei temi che animano le sue ricerche: le tensioni e i conflitti che le attraversano, le domande sulle dimensioni umana e relazionale e su quelle psichica e invisibile, il ruolo delle regole per fare arte, i limiti e le possibilità della forma.
Le direzioni di ricerca che orientano la tua poetica e i tuoi modi di fare arte sono molteplici. Tuttavia, c’è un tema in particolare che credo ritorni frequentemente in primo piano: la dimensione umana.
La questione del mondo umano mi risulta molto disturbante, perché evoca in me il gesto di separazione da ciò che non è considerato umano e richiama alcuni conflitti personali e collettivi che mi premono parecchio. Molti dei miei lavori – esito di un sistema di pensiero che formo, sformo e riformo in continuazione – nascono da un senso di costrizione rispetto alle norme e agli insegnamenti umani spesso attivi nelle nostre costruzioni culturali. Questa “formatura” dell’umano genera spesso anche sofferenza, poiché rimanda inevitabilmente alle gabbie che noi stessi abbiamo delineato in modalità e tempi diversi. È una tensione rivelatoria tanto della necessità di considerare altre dimensioni oltre alla propria, quanto di sentirsi non del tutto capaci di essere parte di una complessità, di un sistema ben più ampio e complicato di quanto non riconosciamo. In questo senso sì, la dimensione umana è certamente chiamata in causa e discussa attraverso la mia palestra di ricerca in relazione continua con tutto “quel resto” che di umano invece non ha nulla.
Pensi che le tensioni e i conflitti che si creano possano avere una origine in particolare?
Da un lato, siamo in crisi perché non riusciamo sempre a sentirci parte di una costellazione, di una mappa più ampia che si estenda dal solo discorso dell’umano per coinvolgere altri elementi. Dall’altro, ci troviamo in questo mondo e ne siamo rapiti, sedotti, spaventati. Non è solo un problema di relazioni tra specie diverse, ma una forma esistenziale difficile determinata dall’essere “questi umani” con “queste caratteristiche” in un dato luogo e che da tempo hanno rifiutato le dimensioni del molteplice. Uno dei possibili punti di inizio è perciò il sentirsi posizionati nel mondo in quanto umani. A questa condizione si aggiunge la nostra potenzialità nel riconoscere evoluzioni interne e relazioni con gli altri. Tutti quegli incontri che possono accadere sono infatti decisivi: non solo possiamo interrogarci su di noi e sulle alterità, ma via via definiamo noi stessi per mezzo di questi incontri. Così possiamo riconoscere che un punto di partenza è tanto la condizione umana, l’introspezione sulle conflittualità e le tensioni che la caratterizzano, quanto la riscoperta dell’indeterminato, lo sconosciuto, il non quantificabile.
L’ARTE DI NUVOLA RAVERA
Alla base della tua pratica artistica credo si possa riconoscere la scelta di prenderti cura di più aspetti legati alle dimensioni umana e relazionale.
Penso al prendersi cura come a una reazione a un senso di separazione, mancanza o impossibilità che attraversa molte delle nostre attività. Per iniziare a comprendere il rapporto con il mondo esterno è stato importante osservare le dinamiche di relazione fra individui ed enti, soggetti e oggetti, per cercare altri modi e altri formati per esistere. La cura è un’ossessione del contemporaneo e del moderno: mi interessa come pratica personale e condivisa, come tema di studio ma soprattutto come sintomo patologico di un sistema paradossale di culto del benessere e dell’individuale. Gran parte della mia ricerca si orienta su questi paradossi della cura, sui sistemi di protezione che precludono all’esperienza qualsiasi rischio. Per contro emerge anche l’eventualità del rischio, la messa in discussione nei confronti di una iper-cura, cercando di usare le opere come strumenti per non cadere nella disattenzione. I lavori che abito hanno proprio la funzione di lasciare che lo sguardo possa rinnovarsi attraverso altre possibilità di posizionamento e movimento.
Se le consideriamo seguendo la cronologia in cui le hai realizzate – per esempio, da Erbario familiare, Pink Elephant, un torrente da una pietra arrivando a L’ultima volta che vidi Parigi – nelle tue opere le trasformazioni dello sguardo e del posizionamento risultano fasi di un percorso che sembri aver sviluppato dalla sfera personale a quella relazionale.
Le prime opere erano molto legate alla sfera personale, a come vedevo e descrivevo aspetti biografici da punti di vista diversi. Erbario familiare è stato il mio primo lavoro di formazione, un mio lessico familiare; Pink Elephant un paradiso artificiale disegnato sulle mie allucinazioni notturne; L’ultima volta che vidi Parigi è un recentissimo collegamento fra un incastro solipsistico e un dialogo con uno o più sistemi in ascolto. Con il passare del tempo, ho voluto includere porzioni di mondo e di identità, considerando questa pratica delle arti come possibilità quasi politica di condivisione e conoscenza. Parallelamente, l’analisi del conflitto personale ha iniziato a essere espansione di una riflessione su queste “specie di bolle” in cui ci barrichiamo e sul loro progressivo sgretolarsi.
LA FORMA SECONDO NUVOLA RAVERA
Un riferimento importante per le tue ricerche è la critica che muovi all’univocità, alla definizione, alla presunta stabilità cristallina delle cose. In altri termini, il tuo disaccordo rispetto al ruolo della forma.
Ne avverto continuamente i limiti. Piuttosto che essere elaborazione di eventuali oggetti, il mio lavoro è anzitutto un’esistenza, un respiro nel quale si presentano insieme alla gioia anche attriti, complicazioni, differenze. Le vite. Ma una sola forma, appunto, non si allinea sempre a questo vivere. Certo si possono trovare degli equilibri nella materia: temporanei o permanenti, si basano comunque su altre instabilità che sono materiali ed esistenziali. Non ho la percezione di avere il controllo sulla materia e tanto meno delle possibili forme che posso conseguire in maniera continuativa e coerente, piuttosto le materie mi attraversano.
Come si traduce questa tensione rispetto alla forma sul piano operativo?
La descriverei come il faticoso tentativo di arrivare, a volte anche in maniera misteriosa e istintiva, a soluzioni formali che tuttavia sono naturalmente votate all’instabilità. Vale a dire, alla necessità di essere repentinamente riconfigurate, proprio perché ben poco è come sembra e sta così come vorremmo. Tutto è mutevole. Sul piano operativo, pare quasi come fossi io a essere scelta dalle forme e dai materiali. Da un lato, mi sento libera – pur non avendo questo potere e il pieno controllo sul lavoro; d’altra parte, mi sento prigioniera dell’in-forme. La possibile coerenza e ripetitività di una modalità operativa mi affascina e mi manca. Tuttavia, è qualcosa che potrebbe essere saturo, mostrare i limiti dell’esperienza e della possibilità della stessa pretesa di iper-determinazione del lavoro. Potrei darmi una regola da sola, ma il punto è che mi sembra mi sia precluso il piacere e il gioco di una forma ricorrente. Ma chissà, magari un giorno studierò i sistemi di auto-condizionamento e mi “libererò” in una forma e un materiale per accontentare la parte plastica e percettiva e silenziare il pensiero.
La tua riflessione sulle regole e la scelta di non dartene informano che c’è già una regola che stai seguendo.
Una parte della tensione nasce proprio da questa condizione, ai bordi tra sentimento di libertà e prigionia. Diciamo che non mi sento protetta dalle mie regole. Non mi proteggo con compiti o progetti che partono in un luogo e si sviluppano con un linguaggio in una direzione prestabilita. Piuttosto, poiché mi domando anche cosa succede alle altre cose ed esistenze nel mondo esterno, mi accorgo ancor più di quanto possa essere insufficiente talvolta una sola forma. Questo, forse, significa percepire anche l’inadeguatezza dei formati e dei contesti in cui operare. Si può attribuire una regola nell’universo del progetto: però i progetti che realizzo – lenti, dilatati, camaleontici, formalmente e geograficamente – si costituiscono come uno scudo che pulsa durante il periodo di attivazione. Possiamo assegnare al progetto un ruolo ambiguo di esposizione del sé, rottura di certe regole, pratica temporanea di alcuni dettami spaziali e allo stesso tempo scudo per filtrare diverse realtà. Quello che ritorna come criterio invisibile sono i maestri, vivi e morti, che accompagnano e ricordano questioni essenziali dimenticate.
La forma è legata a molteplici condizioni di interferenza che possono concorrere a modificarla.
Sì, sono interferenze emanate dai luoghi, dalla qualità della reciproca visione con l’altro e con l’invisibile che si manifestano in tratti formali e note comunicative; in occasioni di incontro che naturalmente prevedono anche un attrito. Questo provoca un “magma” che è anche parte delle nostre “griglie umane e relazionali”, ma non solo. Quella risposta fisica e psichica è uno scambio di forze, di complessità che le attraversa e presenta dibattiti, attrazioni e persino liti.
LE OPERE DI NUVOLA RAVERA
I dissidi legati alle regole, alla forma e alla conflittualità si riconoscono a un primo livello in Pink Elephant, un torrente da una pietra.
È stato uno dei primi lavori in cui ho cercato un pretesto per non stare dentro un perimetro specifico dettato dalla forma, ma per riuscire a stare nella sorpresa del materiale e della visione che compone l’opera. Ho raccolto centinaia di emersioni pre-sonno seguendo suggerimenti ipnagogici per esplorare possibilità di incontro e percezioni alternative a quelle sicure della veglia. A distanza di anni, e considerando la riflessione che abbiamo fatto fin qui sui conflitti e la forma, penso a questo corpo di opere come se fosse una ludoteca in cui dovevo stare perché potessero compiersi dei passaggi legati alla sfera personale e al rapporto e l’incontro con il mondo. Quei passaggi, nonché le visioni che appaiono in Pink Elephant, sono infatti connessi alla possibilità di avere libertà di spostamento, di riconoscere anche un’incapacità di controllare la complessità e l’inspiegabile e tentare di sostare di fronte all’incertezza.
A un livello diverso, direi sul piano delle relazioni, questo riconoscimento del limite appare anche in Azures Tales. Una tua opera in cui – insieme a risaltare il ruolo della variabilità – è riconoscibile anche un altro modo di prenderti cura di quegli aspetti che abbiamo considerato, attraverso un passaggio dalla sfera personale a quella delle relazioni.
Pink Elephant intercetta le concrezioni invisibili ma presenti e necessarie nel mio solitario bagaglio onirico. Azures Tales cerca invece di catturare residui di un contesto sociale e culturale coinvolto fortemente con un dato psichico dell’ambiente non umano, cercandolo fuori e in collaborazione con altri: donne narranti, una psicoanalista, un bambino, un campo d’erba, delle storie incrociate. Quel passaggio che proponi penso sia vitale perché rivela anche il ruolo cruciale dell’incontro nello spazio – non più solo con la mia interiorità appartenente alla sfera onirica, come nel primo caso – ma estroflesso verso svariati mondi in quanto generato con gli altri in senso ampio: come ad esempio con i fantasmi, con gli enti naturali, con i luoghi in quanto soggetti dotati di una identità autonoma.
POSSIBILITÀ E REGOLE
La tua pratica artistica ha il pregio di mostrare quali legami vi siano tra limiti, possibilità e regole. Due tue opere, Big Babol e Soapopera, sono emblematiche: la prima perché è legata al ruolo della trasformazione, la seconda perché è incentrata sui fondamenti e, in ultima analisi, sulla instabilità.
Certamente, tra altri riferimenti, sono anche la forma e la sua discutibile fissità a caratterizzare Big Babol. Un’opera composta di più parti che si continuano a riconfigurare ridiscutendo il ruolo del display. Un’attenzione sostanziale in questo lavoro è infatti nei confronti del potenziale dell’esistenza anziché dell’apparenza e della necessità di considerare molteplici ecosistemi di vite e residui energetici. Soapopera propone un discorso sui miti fondativi e sulle strutture cardine che non è solo riassumibile in una questione di fondamenta. Ad animare l’opera è infatti una domanda ai contesti in cui viviamo, dei quali pensiamo di avere bisogno: è anche un modo per riflettere su come ci rapportiamo con diversi mondi ammettendo la nostra necessità di mostrarci e incontrare lo sconosciuto attraverso uno spazio architettonico a-temporale e precario. La sua funzione è l’incontro, le modalità di stare in prossimità coltivando una discussione di quelle fondamenta culturali, i nostri usi e costumi – l’igiene, la pulizia, il lavoro sporco, l’uso dello spazio domestico – che abbiamo spesso introiettato e accettato. In entrambi i casi la questione delle regole e della separazione e ricongiungimento con una certa ritualità ritornano.
Le regole per la creazione artistica sono legate tanto alle possibilità di formalizzazione e produzione delle opere quanto ai loro contenuti e alle dinamiche della loro condivisione sociale.
Per arrivare a frequentare qualcosa che poi potrebbe essere considerata e vissuta come opera, è possibile entrare in tensione con alcune regole che ci governano. Questo non vuol dire fare qualsiasi cosa indiscriminatamente. Si tratta piuttosto di ridiscutere delle norme, ossia il senso stesso di forme e limiti. Si tratta di capire come procedere, accompagnati da quali visioni, quanto superare una soglia, con quali compagni visibili e invisibili, quanto avvicinarsi a un perimetro e per chi farlo oltre a noi stessi; quanto una mia azione influenza quella di un’altra persona o le cose che sono intorno e di cui potremmo servirci. Tutti aspetti che sono legati all’incontro nella sospensione tra forma e apparizioni e, alla fine, alla loro messa in opera e in discussione con esse. Proprio perché un lavoro può andare in direzioni diverse, essere dedicato a esseri, organismi e sistemi differenti; ossia, si può facilitare attraverso un modulo vivente che adesso chiameremo ‘opera’, il ripristino di qualcosa che sarà forza reagente in base ai tempi e agli spazi e agli interlocutori incontrati invece di trovare una fossile statica dimora.
‒ Davide Dal Sasso
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