Fuoriuscita (VII). Critica e coscienza
Christian Caliandro torna a ispirarsi alla critica di Carla Lonzi per sottolineare l’importanza di un’arte “aperta”, che metta in discussione i meccanismi dell’esporsi e del mostrarsi.
Uno dei motivi per cui sento così vicina Carla Lonzi ha a che fare con la sua lucidità spietata, che non si arresta davanti a nulla, ma che al tempo stesso riesce miracolosamente a rimanere immune da qualunque retorica.
Questa percezione che si autopercepisce costantemente, negli Anni Settanta – attraverso l’esperienza dell’autocoscienza – arriva a considerare “inquinata”, in qualche modo avvelenata (e dunque delegittimata) l’arte su cui aveva lavorato e si era appassionata nel corso del decennio precedente, viziata dall’oppressione, dai rapporti sbilanciati (autore/spettatore), dalla gerarchia e dalla ricerca del prestigio: “Devo dire che questa coscienza che l’arte nasce e si diffonde a scapito dei rapporti ormai fa parte del mio modo di sentire l’arte. (…) è un dissidio interno a me stessa nei confronti dell’arte. So come nasce, so come si vara nel mondo, di quale società ha bisogno sia per nascere sia per diffondersi. A quel punto lì l’arte mi rimane inquinata da questa coscienza. Per me non è più un Valore: è un prodotto umano, di un’umanità con cui non sono in sintonia” (Vai pure, cit., p. 121).
Questo dissidio interno – che non è solo nei confronti dell’arte, ma dell’intera società e dei valori su cui essa si regge – è il motore che spinge tutto il percorso. È per questo che sento che queste parole sono forse ancora più importanti oggi, nella situazione attuale.
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Il movimento intellettuale e teorico che compie Carla Lonzi segna inoltre – come avviene del resto, in forme diverse, in molte riflessioni del femminismo contemporaneo ‒ una valorizzazione del territorio del negativo, o di ciò che generalmente viene considerato e percepito come ‘negativo’, quella zona perciò che è stata accuratamente rimossa, espunta dalla produzione artistica e culturale degli ultimi anni.
Walter Siti, nel suo recente Contro l’impegno, accenna a qualcosa di simile quando scrive: “La letteratura cambia davvero le cose quando urta contro la propria impotenza, alleandosi a quei fondamentali temi umani che gli ‘esercenti di questa Terra’ (politici, industriali, opinion makers) trascurano e rimuovono: la depressione, la noia, la convinzione che nulla abbia un senso, il lasciar perdere, il desiderio di schiavitù, il rancore, l’inconcludenza, la stupidera – il basso continuo della miseria umana da cui ogni volta le ideologie si dichiarano offese e sorprese” (Contro l’impegno, Rizzoli 2021, p. 263).
È in fondo anche ciò di cui parlava, in altri termini, nel 1971 Ettore Sottsass a proposito di una possibile definizione del controdesign: “… L’idea è che valga la pena di scendere sotto la patina arcadica dell’ottimismo portandosi dietro il proprio disastro o i disastri generali, la propria solitudine o la solitudine generale, la propria alienazione o l’alienazione generale per dire in qualche modo che disastri e disperazione e solitudine e alienazione sono di fianco a noi, con noi, ogni giorno, per tutti” (Il controdesign, in Molto difficile da dire, Adelphi 2019, pp. 176-177).
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La richiesta ostinata (e disattesa) da parte della Lonzi di una rispondenza, della reciprocità, in primis agli artisti: “La mia delusione con gli artisti è stata questa, che non mi hanno ricambiato, che mi hanno lasciata spettatrice. Io li avevo capiti e sostenuti quando nessuno, o quasi, li ascoltava. Li ho ascoltati pregustando di riuscire a sbocciare io stessa nella reciprocità invece nessuno me l’ha confermata, ho dato forza a loro e tutto è finito lì” (Taci, anzi parla. Diario di una femminista, Scritti di Rivolta Femminile, Milano 1978).
L’idea molto importante dello “sbocciare nella reciprocità” coincide forse con un’arte e una creatività che aiuti a vivere, a esistere con gli altri. A costruire un mondo comune (a latere, e marginale, rispetto a quello degli ‘esercenti’, fondato sull’ottimismo, sulla produttività, sul risultato, sull’efficienza, quindi sulla finzione e sull’inautenticità), e un modo comune di stare al mondo, di stare insieme (con-vivere).
Questa forma di arte è totalmente aperta, è fatta di relazioni, e avviene in uno spazio domestico, privato, intimo. È un’esperienza interiore – un’esperienza vissuta insieme ad altri. In tal senso, elimina la nozione e il ruolo dello “spettatore”, e anche dello spazio espositivo; elimina cioè la pratica e l’operazione del mostrare, dell’esibire, dell’esporsi. E dell’esibirsi: elimina l’idea dell’essere al centro sempre, della ricerca del consenso, del piacere al maggior numero di persone.
‒ Christian Caliandro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Fuoriuscita (I). L’arte aperta
Fuoriuscita (II). Artista e spettatori
Fuoriuscita (III). Carla Lonzi e il rifiuto del successo
Fuoriuscita (IV). Relazioni e reciprocità
Fuoriuscita (V). Gli artisti e la contraddizione
Fuoriuscita (VI). Il metodo dell’incertezza
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