Dialoghi di estetica. Parola a Rachele Maistrello

Il dialogo con Rachele Maistrello porta alla luce diversi temi che animano la sua poetica: il fraintendimento, l’interesse per la realtà e la dimensione onirica, i margini della fotografia, il ruolo del valore.

Rachele Maistrello (Vittorio Veneto, 1986) si è formata presso l’Università Iuav di Venezia, l’École nationale supérieure des Beaux-arts di Parigi e la ZHDK (Zürcher hochschule der künste) di Zurigo.
Nel 2020 ha vinto il premio Graziadei; nel 2019 è stata artista in residenza presso il museo MAMbo (Nuovo Forno del Pane) ed è stata invitata dal Museo Inside Out di Beijing per il suo programma di residenze; nel 2018 ha vinto il premio Movin’Up e il premio NCTM e l’arte ed è stata tra gli artisti selezionati presso Plat(t)form, Fotomuseum Winterthur; nel 2017 ha vinto il bando ABITARE, commissionato dall’allora MiBACT, dal Museo di Cinisello Balsamo e dalla Triennale di Milano. Le sue opere sono state esposte in mostre personali e collettive tra le quali: Museo MAXXI, Roma (2021); Hamlet, Zurigo (2020); Kunstverein Bielefeld, Germania (2020); Inside Out Museum, China (2019); La Triennale, Milano (2018); PHotoEspaña, Madrid (2018); Galleria Monitor, Roma (2018); Unseen Fair, Amsterdam, The Netherlands (2017); Parallel Vienna, Austria (2017); Mediterranea Young Artist Biennale, Tirana (2017); Galleria Civica di Modena (2015); Galleria Nazionale dell’Umbria, Perugia (2014); Museo di Ca’ Rezzonico, Venezia (2013).

Spesso il soggetto della tua ricerca artistica è il rapporto tra verità e finzione. Affrontandolo riesci a fare emergere un tema ricorrente nelle tue opere: il fraintendimento.
Penso di capire a che cosa ti riferisci. Il mio lavoro nasce dalla fotografia, uno strumento con un suo linguaggio che esploro e uso perché lo sento naturalmente affine alle mie necessità espressive. Allo stesso tempo, con la fotografia nascono anche numerose domande. Per esempio, sulla natura dell’immagine fotografica in quanto documento, che può avere carattere storico ma anche profondamente personale. Questo perché con le fotografie possiamo accedere ai ricordi e anche alle molteplici sfumature che li caratterizzano. La memoria gioca infatti un ruolo decisivo. Le possibilità del fraintendimento, forse, nascono da qui: da quella duplice natura dell’immagine fotografica che è tanto memoria storica quanto ricordo sfumabile e nuovamente immaginabile. Perché, infatti, può anche capitare che un ricordo sia un modo di ripensare l’accaduto e una immagine fotografica contribuisca poi a modificarlo fino a ottenere persino la sua falsificazione.

La tua attenzione per i diversi modi di ricordare rivela anche il tuo interesse per la realtà.
Il mio rapporto con la fotografia e con l’immagine ha una sua natura inconscia e si è trasformato nel corso degli anni. Questo ha contribuito a fare emergere sempre di più una componente onirica che caratterizza i miei lavori. Una componente che poi acquista anche una sua realtà. Per riuscire a ottenerla, la fotografia è decisiva: penso, per esempio, alle immagini di A Hero’s Life che mostrano uno scenario quasi onirico, pur essendo tratto dalla realtà. Un esito che ho conseguito lavorando sulle luci mentre fotografavo, per mostrare un loro ruolo improprio stabilendo una sorta di dialogo tra il reale e l’onirico.

Dunque l’immagine fotografica non è mai un punto di arrivo.
C’è sempre un modo per fare degli sgambetti. Anche quando è possibile elaborare qualcosa che diremmo indiscutibilmente reale. In fondo, le cose non sono mai come sembrano. Ma c’è anche di più. La fotografia è per sua natura legata a qualcosa di passato, come scriveva Roland Barthes. A me interessa invece la possibilità di documentare qualcosa che potrebbe essere stato, ovvero mostrare l’accaduto per un futuro immaginario. Le giovani acrobate che ritraggo in A Hero’s Life mostrano questa possibilità: immaginare un futuro nel presente. O meglio, riuscire con la fotografia a testimoniare la proiezione di un futuro possibile, mostrare qualcosa che potrebbe avvenire. Il punto di arrivo perde la sua importanza proprio perché si crea un eventuale fraintendimento, oppure perché nascono domande riguardanti che cosa accadrà. E questo è anche un modo per stabilire una sorta di dialogo con una dimensione che è slegata dal tempo. Il mio è perciò un modo di usare la fotografia al contrario. Un modo per cogliere ciò che non è visibile senza però trascurare la realtà.

Rachele Maistrello, Stella Maris #1, 2017, c print, 150x100 cm, ed. of 5 plus 2 AP

Rachele Maistrello, Stella Maris #1, 2017, c print, 150×100 cm, ed. of 5 plus 2 AP

LA FOTOGRAFIA SECONDO RACHELE MAISTRELLO

Con la fotografia riesci a ottenere ancora molto altro. Considerarla come un mezzo ci permette di riconoscere il ruolo che svolge nella tua poetica la possibilità di modellare i soggetti delle tue opere per riuscire a rendere manifesta anche una sorta di familiarità con la fantascienza.
Dici bene. La parola che hai usato, ‘modellare’, per me ha molto senso. Soprattutto perché non sono soddisfatta dalle possibilità che può offrire la pratica artistica: non mi basta che la mia arte possa essere una lente di ingrandimento per la mia interiorità. Piuttosto, per me è fondamentale il legame con il mondo esterno, la possibilità di stare all’aperto, in un giardino, su un autobus, con le persone… È lì che posso scoprire gli aspetti di quel che c’è così come il nuovo, lo sconosciuto o l’inconsueto.

Come si traduce questo approccio nel tuo modo di lavorare?
Non sono una reporter. Difficilmente vado da qualcuno per fotografarlo o documentare aspetti per raccontare come li vedo io. Ciò che cerco di fare è usare la macchina fotografica come fosse una specie di filo tra me e le persone, tra me e il mondo. Una sorta di pallina da ping-pong che, spedita a qualcuno, poi mi viene ritirata indietro. Per esempio, quando ho realizzato la mia opera Pennabilli, avevo una idea: la base era il paesaggio, che conosco bene, che appare molto fantasy essendo rimasto incontaminato e soprattutto pieno di leggende appartenenti alla tradizione contadina. Sentivo che quel luogo mi parlava ma non volevo fare un reportage. A me interessava amplificare una intuizione che avevo avuto insieme ai giovani che ho coinvolto nell’opera. Per farlo, ho preso un kit di oggetti che mi sembravano funzionare – sassi colorati, cristalli, materiali luminescenti – e abbiamo iniziato a giocare. Ero interessata a mostrare possibili forme delle loro memorie. Così abbiamo fatto delle passeggiate nei boschi durante le quali mi raccontavano della loro conoscenza delle piante, di fatti storici, di leggende… La fotografia riusciva a restituire delle situazioni che accadevano; consentiva di stabilire un legame tra l’attività di modellare e il rapporto tra immaginazione e realtà; un legame tra la mia sensibilità e quella altrui, tra mondo immaginato e mondo vissuto.

Pensavo agli sgambetti che hai menzionato prima e a questo tuo uso della fotografia. In fondo, si tratta di trovare un modo per arrangiarsi, di scoprire come fare.
Quando ho iniziato a fotografare pensavo spesso: la fotografia non mi basta. Mettevo in discussione la sufficienza dell’immagine. Ultimamente, forse, mi sono riappacificata: credo mi basti un po’ di più. C’è anche un senso in cui questa fiducia nasce proprio dalla possibilità di trovare il modo di arrangiarsi. Certo, non solo per dare luogo a possibili inciampi per offrire punti di vista repentini o per lavorare su qualche frutto onirico. Idealmente, se penso a come sono fatta io, forse adesso scoprire come fare per me vuol dire riuscire a raccontare delle storie. Perciò ti direi che ora, per arrangiarmi, potrei anche scegliere di fare un film. Nel senso che, rispetto a tutto quello che sto facendo, negli ultimi anni mi sono resa conto di quanto l’unione tra testo narrazione e immagine sia davvero una risorsa preziosa.

Rachele Maistrello, Arcadia. Second Attempt, 2016, 6 HD channel video installation, frame stills

Rachele Maistrello, Arcadia. Second Attempt, 2016, 6 HD channel video installation, frame stills

LE OPERE DI RACHELE MAISTRELLO

Un nesso cruciale che risalta anche nella tua opera recentemente esposta al Museo MAXXI di Roma, Green Diamond.
Sì. Anche perché avevo delle immagini, poi per realizzare l’opera ho lavorato molto sul reperimento e la presentazione di testi e documenti. Anche in questo caso la possibilità di raccontare qualcosa di invisibile è stata determinante. Per esempio, il carteggio tra due innamorati, che sono due operai… la loro storia d’amore. Credo che quest’ultima sia considerabile un tabù ancor più che il parlare della morte. Insieme a questi aspetti c’è anche la scelta di mostrare un soggetto quasi secondario, il mondo aziendale – così anonimo e normale – per riuscire a dire che c’è qualcosa di più di quello che noi possiamo vedere.

Il tuo lavoro potrebbe anche essere considerato come una sorta di indagine sui margini della fotografia. Penso, per esempio, a un’altra tua opera, Arcadia: mostra molti aspetti della tua pratica artistica e allo stesso tempo la tua necessità di sconfinare dal perimetro della fotografia.
Va così perché cerco di restituire aspetti di un luogo e di atmosfere non immediatamente riconoscibili. A me interessa riuscire a creare dei cortocircuiti per far parlare qualcosa che altrimenti sarebbe mera silenziosa presenza. Un po’ come dire: aspetta un attimo che ti faccio uno sgambetto e così puoi vedere le cose in modo diverso. Per Arcadia ho coltivato l’idea di questi nipotini che sognano di diventare dei grandi artisti, pensando a quella fase della vita in cui non ci si preoccupa di che cosa studiare e di che lavoro fare per vivere. Mi piaceva l’immagine di un bambino con il nonno che si esercita con uno strumento musicale immaginando di essere un jazzista. Così, sono andata a cercare questi nipotini con i loro nonni. In queste visite mi portavo con me una scenografia fatta di cartoni che ritraevano un pezzo di spazio con le stelle (una immagine originariamente prodotta dalla NASA). Arrivavo trafelata con i cartoni e facevo eseguire le performance allestendo ogni volta la scena in un modo diverso. Sconfinavamo naturalmente dal perimetro della fotografia modellando la scenografia che usavamo.

Sconfinare per mettere a disposizione un piccolo pezzo di cielo stellato e offrire la possibilità di ‘essere’ per un momento nell’universo.
Esatto! Prima del lavoro con la fotografia c’era la costruzione di un set, uno spazio scenico che aveva proprio quello scopo – nonostante il tutto si proponesse a metà tra lo sgangherato e l’eroico. O, se preferisci, tra l’onirico e il reale. La possibilità di trovare un modo, come dicevi prima, di arrangiarsi. E da questo nasce anche una riflessione sul fare arte, quesiti che si presentavano mentre portavo qui e là con i mezzi più disparati quei tre metri quadri di cielo stellato utili a sperimentare un possibile futuro successo… Una riflessione che alla fine è sul valore.

Rachele Maistrello

Rachele Maistrello

VALORE, REALTÀ, FOTOGRAFIA

Come potrebbe articolarsi questa riflessione nel tuo lavoro?
Spesso penso che il mio lavoro si basi principalmente sulla possibilità di non essere qualcosa, di sottrarmi da definizioni e aspettative. Quegli sconfinamenti che hai riconosciuto, il mio interesse per il superamento della pratica artistica, sono anche influenzati da alcuni temi affrontati dal filosofo Giorgio Agamben, che ho avuto la fortuna di avere come professore durante la mia formazione allo IUAV di Venezia. In particolare, l’idea di andare oltre ciò che è dato per aprirsi al non definito, cercare insomma l’incompiuto. E questo per me vuol dire tanto lasciarmi guidare da quello che succede quanto tornare alla dimensione umana, all’incontro con le persone.

Un modo per sviluppare la tua riflessione sul valore che credo sia riconoscibile anche in altre tue opere, per esempio Umberto M. e Stella Maris.
Entrambe solo legate alla possibilità di lavorare al contrario. Umberto M. nasce dall’idea di spostare dal centro dell’attenzione l’opera per riporla invece sul contesto, su chi la osserva e se ne prende cura (Umberto era il guardasala di Fondazione Bevilacqua La Masa, dove sarebbe stata esposta). Quello che provo a fare è ottenere numerosi strati nei miei lavori: Stella Maris mostra anche questo aspetto, che è legato alla mia necessità di misurarmi con la complessità per ottenere una visione articolata in molteplici livelli. E questo mi interessa soprattutto per riuscire a offrire una atmosfera e uno spazio per sperimentare l’opera che non si limitino solo a quella visione.

Davide Dal Sasso

www.rachelestudio.com

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Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso

Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…

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