Joey L., il fotografo di guerra autodidatta
Di origini canadesi, Joey L. sbarcherà in Italia a settembre con una mostra che riunisce i suoi scatti dedicati ai guerriglieri del Kurdistan. Lo abbiamo intervistato.
Ha centinaia di migliaia di follower su Instagram, un sito in cui dà consigli ad aspiranti fotografi, ha viaggiato in tutto il mondo e ha raccontato i teatri di guerra in Medio Oriente. Ha immortalato – tra gli altri ‒ Robert De Niro e Danny De Vito, e sta ora lavorando a un libro che contiene un progetto fotografico importante: abbracciare tutte le regioni dell’Etiopia e le diversità umane che le abitano. Abbiamo incontrato Joey L., fotografo canadese rappresentato dall’agenzia Sudest57. In Italia tornerà a settembre portando al Festival Grenze di Verona il progetto Guerrillla Fighters of Kurdistan.
Perché hai scelto la fotografia per raccontare la storia al mondo?
I fotografi lottano con la necessità di afferrare qualcosa di interiore, di profondo, con un mezzo esteriore. Per esempio, lottiamo per catturare un evento spirituale con un oggetto superficiale come una macchina fotografica, che registra solo la materia, la realtà fisica. Tuttavia, quando ha successo, una buona fotografia può effettivamente rivelare qualcosa di nascosto. Questa è la magia della fotografia, che è difficile da spiegare. Sono coinvolte persone reali e situazioni reali. A volte la posta in gioco è alta.
Ho letto che ti sei formato da autodidatta. Che cosa si ottiene e che cosa si perde dall’imparare da soli?
Hai ragione, sono autodidatta. Ero una tela bianca modellata dal mondo intorno a me invece di un insegnante che tramandava la conoscenza. Questo mi ha fatto commettere molti errori. Ma ha anche portato ad alcuni successi irripetibili e unici. La cosa più importante: ho imparato l’etica del lavoro necessaria per fare le cose in piena indipendenza.
Come descriveresti la tua fotografia a qualcuno che non l’ha mai vista?
Le mie fotografie sono ritratti “alti” di soggetti immersi nei loro ambienti, consapevoli di essere fotografati, mentre si espongono in un modo dinamico e cinematografico.
LA FOTOGRAFIA SECONDO JOEY L.
Cosa distingue la fotografia commerciale da quella artistica, dal punto di vista stilistico?
Non c’è sempre una distinzione tra fotografia commerciale e artistica. Non sto parlando di pubblicità patinata affissa sul lato della strada a confronto con un bel libro d’arte. Molti dipinti classici venerati nei musei di oggi erano originariamente commissionati da un cliente. Naturalmente, siamo consapevoli di due mondi diversi, uno che promuove un prodotto, e uno che promuove una visione personale. Ma se un fotografo viene assunto da un cliente, i migliori fotografi commerciali utilizzano la loro visione personale per rendere il risultato finale il migliore possibile. In alcuni casi speciali, un progetto commerciale stesso può diventare un substrato per il fotografo per lavorare e creare della fine art. Penso che non dovremmo fare alcuna differenza. Ci sono solo buone immagini e brutte immagini.
Qual è il tuo processo creativo? E quando decidi che una foto è pronta per essere stampata?
Mi piace immergermi in cose che mi interessano già. Ciò che conta per me è l’antropologia, la cultura, la condizione umana, la storia, la geopolitica, il conflitto. Voglio fotografare queste cose senza tempo. Non voglio creare notizie, o immagini “puriste”.
Hai visitato molti Paesi. Cosa cerchi quando viaggi? Qual è la prima cosa che cerchi in un nuovo posto? Cosa ti porta là?
Sono andato in molti degli stessi posti molte volte, invece di cercare sempre di visitarne di nuovi. Un fotografo dovrebbe innamorarsi della storia di una regione, e sapere cosa succede là per continuar il progetto di ricerca.
I SOGGETTI DI JOEY L.
C’è molta anima nelle tue foto. Come fai a farla emergere dai tuoi soggetti? Qual è la tua definizione di umano?
Un’”anima” in una foto è solo qualcosa che accade quando si ha una intenzione pura e ti importa di quello che stai facendo. Credo che sia un bene per un fotografo entrare nella visione del mondo dei soggetti che sta ritraendo.
Ecco, appunto, puoi definire cos’è un ritratto? Come ti metti in relazione con i tuoi soggetti?
Quando incontro qualcuno, avrei già dovuto fare le mie ricerche e sapere ciò che mi rende diverso da lui. Dovrei avere delle cose di cui parlargli, e anche delle domande per risposte specifiche e puntuali. Dovrei avere un’idea di quello che voglio ottenere insieme a quella persona, ma anche essere pronto al cambiamento.
Puoi spiegare queste tue parole: “Quando fotografo qualcuno sento che le persone su entrambi i lati della macchina fotografica dettano come l’immagine risulterà“?
Significa che preferisco i fotografi che hanno una forte voce stilistica.
Hai un blog, e un tutorial: quali sono le domande più frequenti e cosa consiglieresti a chi vuole diventare un fotografo?
Ci sono molti modi per farlo, e non c’è un percorso chiaro, soprattutto oggi. Le vecchie istituzioni che un tempo erano custodi della fotografia si sono dissolte, lasciando dietro di sé molte opportunità. Il mio consiglio è di avere interessi e hobby al di fuori della fotografia. Lascia che le ossessioni prendano il sopravvento su di te, piuttosto che cercare un certo tipo di ossessione che qualcun altro aveva. E queste sono le cose che si possono far entrare in una macchina fotografica.
Si utilizza anche il linguaggio del web e dei social. Come ha cambiato o influenzato la fotografia?
Internet mi ha permesso di mostrare il mio lavoro a un pubblico più ampio e diversificato: mai avrei potuto farlo in passato. Ma questa è una grande responsabilità: immediatamente il tuo lavoro è sottoposto a una sorta di giuria online. Qualcuno parlerà male di te, qualcuno sarà rispettoso del tuo lavoro. Quel che conta è rimanere fedeli alla propria visione: non importa quante persone la osservino e interagiscano con essa.
Ci sono culture che non approvano o non capiscono o non accettano la fotografia. Come ti poni davanti al problema della “fotografabilità”?
Con un approccio lento e riflessivo.
IL PROGETTO SUL KURDISTAN
Può dirci brevemente qualcosa sui “guerriglieri del Kurdistan“, il progetto che sarà esposto a Verona a settembre?
Questo progetto è uno studio della cultura curda, che ha vissuto una rinascita in Siria durante la guerra. Sia la lingua curda, sia molte attività culturali, furono bandite dal governo siriano prima del conflitto. Quando le milizie lasciarono i curdi per difendere le aree strategiche dagli jihadisti, questi furono liberi di esprimere la loro cultura senza l’oppressione dello stato siriano, ma hanno anche dovuto difendersi a ogni costo contro i gruppi estremisti che li volevano massacrare.
Il mio lavoro si è sempre concentrato su gruppi linguistici e culture in via di estinzione. Ci sono somiglianze tra i curdi e altri progetti fotografici che ho fatto in passato, questo non è cioè un progetto di guerra.
E quindi che cos’è?
Pubblicare il libro è stato un modo per unificare tutte le fotografie in una singola serie per veder evolvere il movimento di guerriglia in un esercito pienamente funzionante con crescente internazionale legittimità. Volevo che il libro mostrasse visivamente l’incredibile trasformazione subita dai curdi durante la lotta contro l’ISIS, specialmente in Siria: da civili oppressi a soldati armati del proprio destino.
IL FUTURO DI JOEY L.
Quanto può un sito espositivo influenzare il contenuto?
Mi viene in mente un esempio. Abbiamo esposto ritratti di combattenti curdi in una prigione dell’era di Saddam a Slemani, nel Kurdistan iracheno. Quel sito espositivo ha reso il lavoro più forte, perché lo spazio stesso è diventato un potente messaggio di resilienza.
Guardando avanti dieci anni, cosa vorresti fare? Un libro? Un film?
Il nostro mondo sta diventando omogeneo. Ogni terra e ogni epoca distinta dà vita a una cultura distinta. Quando ne perdiamo una, non solo perdiamo una lingua, ma perdiamo parte della diversità dell’umanità, e un tassello del nostro mondo che non potrà mai più essere modellato allo stesso modo. È vero che noi esseri umani abbiamo più cose in comune tra di noi che il contrario, ma la mia ambizione è celebrare la bellezza delle nostre differenze, piuttosto che difendere la globalizzazione e l’uniformità. Quindi, che si tratti di libri o film che si concentrano su questo punto, questa è la finestra attraverso cui vedrò e fotograferò il mondo.
– Simone Azzoni
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