Rino Gaetano moriva 40 anni fa. Cantautore-poeta senza ipocrisie
Anche se rilanciato con i canti dai balconi nei giorni della pandemia, Rino Gaetano rimane purtroppo un personaggio più famoso che realmente conosciuto, di cui ancora oggi sfugge la profondità di osservazione e di critica sociale, e la portata del contributo artistico. A quarant’anni dalla scomparsa, ne tracciamo un breve ritratto.
“Sento che, in futuro, le mie canzoni saranno cantate dalle prossime generazioni che, grazie alla comunicazione di massa, capiranno che cosa voglio dire questa sera”. Rino Gaetano, 1979
Mio fratello è figlio unico, Berta filava con Mario e con Gino, Gianna aveva un coccodrillo e un dottore, l’emigrante portava le provviste, la vecchia salta con l’asta, i conti della Sip non convincono mai, Mario Capanna parla in latino, ma comunque state sereni, tutto cambierà domani. L’universo poetico di Salvatore Antonio Gaetano (Crotone, 1950 ‒ Roma, 1981), in arte Rino Gaetano, è caustico, surreale, tormentato. Ma è quanto ci voleva per raccontare un’Italia che campava sul benessere illusorio del consumismo, senza accorgersi della deriva morale cui andava incontro, e dello sfaldarsi delle sue istituzioni corrose dalla mafia, dal terrorismo e della corruzione. Quando Craxi inventò la Milano da bere, arrivò in ritardo: rimanevano gli ultimi sorsi, Milano e l’Italia erano già state bevute dieci anni prima, nel caos degli Anni Settanta, dove il terrorismo serviva anche per distogliere l’opinione pubblica dal malcostume politico e giustificare un certo tipo di scelte. Ne parlavano alcuni giornalisti, pochissimi intellettuali, e nessun artista.
Cantautore moralmente (non politicamente) impegnato, in un’Italia che stava perdendo valori sociali e punti di riferimento, dilaniata dalla violenza di piazza e dall’aumento della tossicodipendenza, era fra i pochi artisti in grado di capire i giochi di potere e interessi che coinvolgevano anche il mondo della politica: emblematica, in tal senso, Capofortuna, incentrata sulla smagliante figura di un segretario che “sembra immortale ma è come noi // lui è stato sempre puro come l’alito di chi // non beve e non fuma lava i denti tutti i dì // profuma di roba francese e sulla camicia ha un foulard di chiffon // regala sorrisi distesi ai suoi elettori ai bambini bon bon”. Ma il successo non era pari al talento, e anche un capolavoro come Berta filava, sulle implicazioni e i retroscena del mancato Compromesso Storico, era passato quasi inosservato nel 1976.
LA STORIA DI RINO GAETANO
Ma Rino Gaetano non ha speso la sua voce soltanto per stigmatizzare i problemi di un’Italia corrotta e meschina e che tale è in gran parte rimasta. Ha anche saputo inneggiare all’amore, alla fantasia, alla libertà, e ha dedicato splendidi versi a quel Sud azzoppato e ferito cui, per citare Carmelo Bene, “non resta che volare”. E volano le parole di Gaetano, come aquiloni in cerca del sole, per accompagnare tutti coloro che, nonostante tutto, continuano ad andare avanti, a combattere le difficoltà quotidiane, senza amicizie né tessere di partito. Esordì artisticamente con il teatro, sul palco del Folkstudio nel 1969, passando poi al cabaret Puff, dove conobbe Venditti e De Gregori, e optò definitivamente per una carriera di cantautore (ma in mezzo recitò Majakovskij e interpretò la volpe nel Pinocchio di Bene). Ingresso libero del 1974 fu il suo primo album, inizio di una carriera purtroppo breve ma artisticamente intensa e originale.
Acrobata della parola, capace di tratteggiare universi surreali e insieme quotidiani, ha scritto canzoni che sono inni dolci-amari ai fatti della vita, componimenti solari e malinconici che hanno la loro bandiera nella diversità e nella non appartenenza. Rino Gaetano è stato un intellettuale senza padroni che non ha mai chiuso gli occhi davanti al disagio degli “eretici” e degli “infedeli”.
RINO GAETANO, IL TEATRO E LA MUSICA
Nel settembre del 1977, apparve in televisione nel corso di Auditorio A per cantare Spendi spandi effendi (caustico brano sul consumismo e la crisi energetica), con una pompa di benzina in mano e vestito da operaio petrolifero; all’Arena di Verona, per il Festivalbar del 1978, si esibì sul palcoscenico in accappatoio a strisce bianche e blu, cantando Nuntereggae più mentre fingeva di leggere i titoli di un giornale. Al Festival di Sanremo, pochi mesi prima, aveva cantato Gianna indossando un improbabile frac costellato di medaglie e pizzicando un ukulele. Esibizioni che tradiscono il suo genio e il suo amore per il teatro di Beckett, che si affianca a melodie che ora strizzano l’occhio al jazz, ora rimangono sospese su tonalità di amarissima ballata, ma capaci anche di scatenarsi su un colorato reggae. Ammiratore dei Beatles di cui ammirava l’eclettismo, libero pensatore poco amante della mondanità e della fama, Gaetano ricorda da vicino personaggi come Boris Vian, Georges Brassens o Jacques Brel, come loro disinvolto e un po’ anarchico, ed è stato il cantautore dei “figli unici” che rifiutano il compromesso, degli emigranti in cerca di fortuna e degli uomini di buona volontà.
Ma l’Italia è sempre la stessa, quella di “chi ruba pensioni // chi ha scarsa memoria // chi mangia una volta // chi tira al bersaglio […] chi suda, chi lotta // // chi gli manca la casa // chi vive da solo // chi prende assai poco // chi gioca col fuoco // chi vive in Calabria // chi vive d’amore […] // chi muore a lavoro”. È la patria di “politici imbrillantinati // che minimizzano i loro reati // disposti a mandare tutto a puttana // pur di salvarsi la dignità mondana”. E chissà quanto ancora avrebbe potuto regalare alla musica se un incidente d’auto non avesse prematuramente posto fine alla sua vita. Chissà cosa avrebbe detto, ad esempio, di Tangentopoli o del Grande Fratello. Quel che è certo, purtroppo, è che da quel 2 giugno del 1981, il cielo è un po’ meno blu.
– Niccolò Lucarelli
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