Bergamo riscopre l’arte di Regina, scultrice rivoluzionaria
Troppo poco vista sin qui, la scultrice Regina esprime la sua originalità nella mostra alla GAMeC che ne ripercorre tutta la carriera, grazie all’acquisizione di un importante corpus di lavori da parte della sede bergamasca. Dal Futurismo all’Arte concreta, sempre con un tocco personale ed eccentrico, tra rigore geometrico e libera leggerezza.
Mancava una mostra sistematica su Regina (Regina Cassolo Bracchi, Mede Lomellina, 1894 ‒ Milano, 1974). Sia perché l’artista è stata sin qui troppo poco vista, sia perché viene spesso ridotta a ruoli secondari tipo “esponente femminile del Futurismo” e così via.
Una trattazione sistematica come quella che le dedica la GAMeC, che ripercorre in sintesi tutta la sua carriera, mostra invece come la sua arte “eccentrica” ‒ sempre personale, leggermente discosta dalle varie tendenze alle quali si è avvicinata ‒ abbia un valore assoluto, anche e soprattutto vista con gli occhi di oggi.
Il percorso parte dalle opere degli Anni Venti, preavanguardiste, nelle quali però si riscontrano i primi germi del linguaggio che verrà. La geometria, e più in generale la forma, diventano via via, nelle mani di Regina, strumenti straordinariamente malleabili, leggeri e allo stesso tempo, a modo loro, imponenti.
LA DICHIARAZIONE DI AUTONOMIA DI REGINA
La svolta assoluta sono certamente le lastre di latta incise. Il concetto di scultura subisce con questi lavori una trasformazione che equivale a una dichiarazione di autonomia: sono lavori antimonumentali eppure maestosi, agili nel fondere figura e astrazione, modernamente eclettici nel collocarsi in un punto di convergenza tra diversi mezzi espressivi. La mostra permette di coglierne la concezione esponendo anche i modelli realizzati “semplicemente” con carta e spilli.
Altro punto di svolta, che apre la seconda parte del percorso espositivo, è l’erbario che Regina disegna in mancanza d’altri materiali, essendo esiliata a causa della Seconda Guerra Mondiale. Le specie botaniche sono raffigurate con rigore ma anche caratterizzate, come se si trattasse di ritratti. È d’altronde questo il suo approccio costante: il metodo e il rigore della geometria non vengono mai meno, ma lasciano filtrare sottili deviazioni, aperture, fragilità feconde.
LE OPERE DI REGINA
Risulta naturale, dunque, l’affiliazione all’Arte concreta, ma anch’essa segnata da un approccio laterale: lo si vede nella natura inusitata delle composizioni di plexiglas colorati, alcune delle quali sospese a fili di nylon e dunque fluttuanti.
Nella sezione relativa agli ultimi decenni di lavoro, l’eclettismo dell’artista si applica con sguardo riflessivo alla sua stessa opera: si fondono e si alternano i diversi stili praticati negli anni, come in un campionario che conferma e rinnova le sue scelte precedenti.
Pur attenendosi al criterio cronologico, la mostra, grazie a un allestimento elegante ed efficace, propone rimandi tra opere di epoche diverse, corrispondenze formali e di concetto, focus su particolari aspetti. Tra gli altri “capitoli” di un’opera coerente ma sempre in mutamento, si incontrano così la sezione sul Paese del cieco, opera del 1936 della quale viene sviscerata la concezione e la realizzazione, le variazioni sul verso del canarino (fogli a metà tra paroliberismo futurista e poesia visiva), gli esili eppure maestosi Teatrini.
‒ Stefano Castelli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati