Peter Halley a Orani. Intervista alla direttrice del Museo Nivola Antonella Camarda
L’intervento dell’artista americano per il Museo di Orani nello spazio delle mostre temporanee. Ce lo racconta la direttrice in questa intervista
Celebrate tra il 12 e il 14 di Antesterione (a cavallo tra febbraio e marzo), le Antesterie erano attività organizzate in onore di Dionisio, inaugurate con la spillatura del vino cui facevano seguito riti, gare di bevute e recitazione oltre alle commemorazioni in onore dei defunti. Il tutto all’interno di un clima di esaltazione e forte ebbrezza. A queste celebrazioni si è ispirato Peter Halley per il site specific ideato per lo spazio delle mostre temporanee del Museo Nivola a Orani. Antico lavatoio razionalista restaurato, nonché primo nucleo del Museo barbaricino. Con un approccio ripetitivo e ossessivo, l’intervento di Halley è un susseguirsi di campiture piatte fortemente dinamiche fondate sull’horror vacui della rappresentazione, dove razionalità e ordine si contrappongono a motivi grafici minimalisti dai cromatismi fluorescenti che esplodono tra uno specchio e l’altro delle pareti dell’ex lavatoio. Un intervento in divenire ottenuto mediante il repertorio segnico acquisito da Frank Stella, Donald Judd e Dan Flavin e che ha avuto origine con le celebri finestre delle carceri osservate dall’interno di una cella, metafore dell’isolamento della società contemporanea. Analitica e visionaria, la pittura di Peter Halley, volta a esplorare lo spazio in epoca digitale muovendo dal rifiuto per il modernismo europeo, attinge in questo frangente alla tradizione pittorica d’epoca rinascimentale con l’obiettivo di restituire una sorta di Cappella Sistina contemporanea. Abbiamo contattato l’artista che ha affidato l’incarico di rispondere all’intervista alla curatrice e direttrice della Fondazione Nivola Antonella Camarda.
Com’è nato il site specific Antesteria?
Il progetto è nato circa due anni fa, da una visita che feci con Giuliana Altea nel suo studio a New York. In quella occasione parlammo del Museo Nivola, e tra l’altro venne fuori che il museo aveva da poco realizzato un progetto con Alessandro Mendini, un artista con cui Halley ha più volte collaborato e al quale lo legava una forte sintonia di vedute, e la cosa gli è parsa subito di buon auspicio.
A cosa si deve la scelta del titolo e fino a che punto è rimasto affascinato dalla cultura classica?
Il titolo rimanda alla festa dei fiori che nell’antica Grecia si teneva in onore di Dioniso, e proviene da uno spunto nato in conversazione con la curatrice e la grecista Sotera Fornaro. Corrisponde perfettamente all’idea della mostra, perché mette il progetto sotto il segno del dionisiaco, unendo l’idea di rinascita (il risorgere della vita a primavera) a quella del pathos e del dolore (un momento della festa era la celebrazione dei morti). Il fascino dell’antico però è solo parte della storia. Potremmo parlare anche del fascino della pittura modernista, o della cultura postmoderna, che sono aspetti ugualmente importanti del progetto.
Mi descriveresti il processo creativo?
Le sue installazioni cercano sempre di rispondere al luogo cui sono destinate. In questo caso si trattava di un contesto mediterraneo e di un edificio – un ex lavatoio pubblico – simile a una chiesa. L’artista ha pensato di contrapporre al bianco della luce mediterranea un’esplosione di colori fluorescenti, e alla semplicità dello spazio un labirinto di motivi grafici.
Quanto c’è di Mediterraneo nel progetto?
Come ho già detto, il progetto scaturisce dal contesto. La forma dello spazio espositivo lo ha portato a ripensare alla tradizione della pittura italiana del Medioevo e del Rinascimento; lo schema degli antichi cicli di affreschi ha suggerito la composizione generale, all’interno della quale si ritrovano i temi della sua pittura, le celle, i condotti, le esplosioni; sono presenti perfino i disegni preparatori dei miei quadri, trasformati in pattern decorativi. Il lavoro combina in un certo senso la storia della pittura con la mia storia personale di artista.
Da dove proviene il suo codice geometrico?
La geometria è stata vista a lungo come proiezione di un ordine trascendentale, immagine di stabilità, di armonia e di progresso; all’artista interessa invece il ruolo che svolge nella cultura e nella società, come strumento di controllo e di disciplina. Quadrati e linee valgono come metafore degli spazi sociali e delle reti organizzative e comunicative che dominano la nostra vita.
Nel suo lavoro emergono ordine e razionalità che si contrappongono a colori sgargianti e accostamenti stranianti. Come riesce a conciliare i due opposti?
Non cerca di riconciliarli, li mette insieme e basta. Del resto, potremmo dire che razionalità e colori brillanti non sono necessariamente in antitesi (Mondrian insegna).
Come si è evoluta la sua ricerca nel corso degli anni?
L’impostazione generale della sua pittura non ha subito variazioni sconvolgenti nel tempo. Ha continuato ad esplorare una serie di temi che sembrano più rilevanti, approfondendoli, accentuandone alcuni aspetti. Forse il cambiamento più notevole è stato proprio il nuovo rilievo assunto negli ultimi tempi dall’installazione, il passaggio delle sue immagini dalla tela all’ambiente: realizza installazioni fin dagli anni Novanta, ma dal 2018 in poi questo tipo di lavoro ha cominciato a impegnarlo in modo particolare.
– Roberta Vanali
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