Stelio Mattioni. Lo scrittore che fu la voce letteraria di Trieste
Fra le voci più originali ma meno conosciute della letteratura giuliana del Novecento, romanziere e favolista allo stesso tempo, con uno stile unico e inconfondibile, Stelio Mattioni ha narrato il microcosmo triestino elevandolo a specchio delle bizzarrie psicologiche e delle sofferenze interiori dell’umanità. Lo ricordiamo a 100 anni dalla nascita
Scrittore-impiegato, nella tradizione mitteleuropea di Italo Svevo e Franz Kafka, come loro legato a una visione impersonale e spettrale della realtà che rispecchia la crisi spirituale a cavallo fra le due guerre, Stelio Mattioni (Trieste, 1921-1997) è stato fra gli esponenti più originali della letteratura triestina del Novecento, attento osservatore della società e della condizione femminile. Sono le donne, infatti, i personaggi più intensi e commoventi dei suoi romanzi, quelli che, a partire dagli Anni Sessanta, dimostrano una maggiore forza morale, anche se non sfuggono al loro destino di tragiche eroine. Mattioni non fu un semplice osservatore sociale, per lui la scrittura fu la risposta all’urgenza di spiegare l’oppressiva oscurità della realtà moderna. E lo fece in maniera così innovativa da indurre Italo Calvino a definirlo, sulle pagine del Menabò di letteratura, “uno scrittore che mi pare del tutto eccezionale. Non somiglia a nessuno, ha un mondo fantastico proprio e di grande forza”.
Quella forza la riversò nel raccontare la sottile, struggente bellezza della lotta contro il grigiore quotidiano, dell’evasione mentale come strumento di non omologazione.
LA SAGA DEGLI ANTI-EROI DI MATTIONI
Esordì nel 1956 con la raccolta di poesie La città perduta, pubblicata da Schwarz, ma sentì che solo la narrativa gli avrebbe permesso di esprimere la sua complessa visione della vita, fatta di incontri casuali, complicati intrecci sentimentali in equilibrio fra illusione e realtà, solitudini, attese, speranze. E sei anni più tardi pubblicò con Einaudi Il sosia, raccolta di racconti su esistenze dolorose, alla ricerca di un dignitoso centro di gravità. Cinque storie che lo consacrarono sulla scena letteraria maggiore, che, ironia della sorte, non necessariamente era quella seguita dal grande pubblico. Pur votato alla narrativa, Mattioni conservò sempre, al fondo, un legame con la poesia: i suoi scritti, con le loro allusioni, il linguaggio delicato, le metafore, si librano sul contesto reale con una leggerezza che si sfrangia nella fiaba, sia per gli elementi quasi magici che determinano la “complicazione” sia per la dimensione del tempo che prescinde dal calendario e si dilata nel ricordo e nell’introspezione. Questa realtà atemporale, vissuta come un qualcosa di enigmatico e alienante, è fonte di dubbio, malessere e disincanto, così come di un malinconico fantasticare. Tratti peculiari della letteratura mitteleuropea fra Ottocento e Novecento, che Mattioni fece propri guardando però ancora più a est, a Gogol’ e a Čechov, e spesso la sua scrittura si ammanta di dolorose tinte grottesche.
Il re ne comanda una, Il richiamo di Alma, Tululù, Sisina e il lupo sono alcuni dei romanzi di (dura) vita quotidiana, che compongono la produzione di Mattioni. Pagine di anti-eroi, in cui, anche inconsciamente, si cerca di fuggire dalla vita vera, che spaventa per essere illuminata da una luce troppo calda, quasi da bruciare la pelle. E non è un caso che le sue atmosfere evochino invece colori tenui, a volte anche cupi, e sotto sotto, come una malattia strisciante, s’insinua il dubbio che l’assurdo sia il vero fil rouge dell’esistenza, per questo condannata alla solitudine e a una sostanziale incomunicabilità.
TRIESTE E LA MITTELEUROPA
Negli anni della sua giovinezza la scena letteraria triestina era animata da personalità del calibro di Umberto Saba, Pier Antonio Quarantotti Gambini, Giani Stuparich e Virgilio Giotti, e su tutti aleggiava la presenza di Svevo, prematuramente scomparso nel 1928. Da loro assorbì l’interesse per quella Trieste piccolo-borghese, dove avrebbe ambientato storie di (stra)ordinaria quotidianità. Al pari della narrativa di Svevo, anche quella di Mattioni è intrisa d’intimità, di umane debolezze, di bizzarrie, di sogni, di sguardi, gesti e allusioni, che trovano un’ideale matrice nella psicanalisi freudiana.
Ma Trieste è città compassata e mitteleuropea, affacciata su quell’Adriatico che è la porta dell’Oriente, di un altrove irraggiungibile, appunto dal sapore di fiaba, vagheggiato durante le giornate che si svolgono fra vie, piazze, caffè, stanze, perfettamente noti eppure non troppo conosciuti. Lì si snodano percorsi della mente e dell’anima e, come in un dedalo kafkiano, si insegue se stessi cercando di sfuggire all’oscurità, ci si sente soffocare in anguste camere d’affitto, come fossimo in un sobborgo di Praga, Vienna, Berlino, Brno. Pallidi come figure di Gustav Klimt, i personaggi di Mattioni si portano dentro un senso di perdita, materiale o relazionale che sia, che si riverbera sulla percezione della realtà circostante, sempre filtrata da quest’ossessione. Proprio nel fatale fallimento della ricerca sta la chiave di queste esistenze e di questi labirintici romanzi: è nel fallimento che l’individuo si conosce meglio, è davanti all’enigmaticità della realtà che si è costretti a fare uno sforzo di fantasia, unico modo per evadere dal grigiore quotidiano.
‒ Niccolò Lucarelli
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