La performance che si ispira al deserto. Intervista a Muta Imago e Alvin Curran

Sonora Desert, ultima opera di Muta Imago, ha debuttato al Santarcangelo Festival. Un formato originale tra installazione, concerto e performance, un viaggio immaginario che coinvolge la percezione dello spettatore. Abbiamo intervistato Claudia Sorace e Riccardo Fazi insieme ad Alvin Curran, compositore delle musiche originali per la performance.

Sonora Desert è un esperimento percettivo. Muta Imago, a partire da un viaggio nel Deserto di Sonora, ha ideato un viaggio immaginario nel tempo e nello spazio che invita gli spettatori a lasciarsi attraversare da diversi stati di coscienza. Una composizione per vibrazioni che intercetta la possibilità di dialogare con tempi altri, attraversando il deserto, “spazio assoluto, vuoto di senso, assenza di socialità e di relazioni, contro il proliferare dei segni, contro l’ansia di essere e di apparire.
Nella costruzione di questa partitura Muta Imago si è avvalsa del talento di Alvin Curran, che compone esperienze sonore presentando i suoni per quello che sono e mantenendo la libertà per chi ascolta di farne ciò che vuole.

IL PROGETTO SONORA DESERT

Qual è il rapporto tra il deserto, luogo fisico e simbolico, e la relazione con l’Io?
Riccardo Fazi: I deserti americani ci hanno colpito come luoghi fortemente simbolici. Secondo Baudrillard “il deserto è il silenzio del tempo”, ma ti mette anche di fronte a una stratificazione temporale: tutto quello che è stato e che sarà si condensa in un’immagine. Sonora Desert lavora sulla sottrazione, è un dispositivo che mette al centro la mente dello spettatore, una dimensione di viaggio liminale a cavallo tra sogno e veglia, tra coscienza e inconscio. Il deserto è anche questo, presuppone uno svuotamento di senso, lì le cose esistono per quello che sono e non vogliono trasmettere un significato. Stiamo su quel crinale che cerchiamo sempre di inseguire, il voler condividere delle emozioni più che dei contenuti o dei messaggi.

Come musicista ha spesso lavorato con artisti provenienti da altri ambiti, come avete collaborato per Sonora Desert?
Alvin Curran: Da mezzo secolo ho una vasta esperienza con moltissimi artisti e in tutte le forme, ma la collaborazione con Muta Imago è stata molto più profonda che in altri casi. Non avevo mai lavorato a un progetto dove mi si richiede di non fare quasi nulla. Un bel problema per un compositore, le nostre azioni sono sempre abbondanti e ben delineate. Collaborare a Sonora Desert è stata una sfida creativa, la possibilità di mettermi da parte e ricominciare da zero. Mi sono addentrato in un mondo di purezza, di uso rigoroso del suono non adornato, di segni assoluti. Il tutto facendo entrare in armonia la parte teatrale e la mia capacità compositiva con questo cosiddetto teatro ridotto quasi a se stesso, al pubblico come protagonista. Lo spettatore è circondato da stimoli esterni che danno la responsabilità direttamente all’individuo, come perso nel deserto: sei solo e decidi tu in che stato sei.

Come ha lavorato sul suono? Fa uso di sola musica elettronica?
Alvin Curran: La mia naturale tendenza a prendere i suoni dall’ambiente era esclusa. Ci siamo concentrati su suoni elettronici puri e onde sinusoidali per creare questa musica non musica. Ci sono dei gesti, crescendo e diminuendo, momenti di stasi assoluta, tutto questo è musica, ma c’è anche un mondo di minimalismo massimale che cerca di non indicare una direzione, un sentimento, di essere purezza assoluta, una cosa quasi impossibile nel suono. Noi ci abbiamo provato e sta al pubblico reagire, capire o non capire, sparire. È un lavoro che riguarda la sparizione: della musica, del concetto di teatro, del pubblico come unico ricevitore di un evento artistico.

Muta Imago & Alvin Curran, Sonora Desert

Muta Imago & Alvin Curran, Sonora Desert

MUSICA, TEMPO E PERFORMANCE

Negli ultimi anni avete condotto una ricerca sul tempo e sulla possibilità di una diversa percezione dello stesso attraverso la performance. Quale dimensione temporale è ricercata qui per lo spettatore?
Claudia Sorace: Ovviamente la dimensione temporale è l’oggetto, è quello che più ci appassiona, anche per le possibilità che offre il mondo performativo. Abbiamo cercato di andare in luoghi insoliti e di portare con noi il pubblico, di costruire i presupposti in modo che lo spettatore possa intraprendere un viaggio nei propri tempi e nei propri luoghi, reali o immaginati, passati o futuri. Lavoriamo con la possibilità per lo spettatore di vedere, di percepire, di prendersi il tempo di vivere la dimensione esperienziale legata al tempo, normalmente bandita dalla società. La difficoltà è non condurre gli spettatori in maniera coercitiva ma lasciarli soli con se stessi. Si è trattato qui di costruire un ambiente, non un paesaggio; un luogo non da vedere ma da esperire e riempire con il proprio vissuto, la propria esperienza personale.
Riccardo Fazi: È il tentativo di trovare, attraverso i linguaggi della performance, del suono, dell’installazione, possibilità altre di messa in relazione tra il nostro tempo personale e un tempo più ampio, che mette al centro della questione una riflessione sull’assenza e sulla scomparsa dell’ego.

Quale ruolo concepisce per la sua musica in un dispositivo di questo tipo?
Alvin Curran: La scomparsa dell’ego di cui parla Riccardo riassume il significato di questo lavoro. Più di tutte le altre arti, la musica è disponibile a tutti in tutto il mondo, sia passivamente che attivamente, ed è in grado di far scomparire l’ego, individuale e a volte anche collettivo, come nei grandi concerti o in Sonora Desert, dove si condivide il suono nella sua matericità. C’è un piccolo gruppo di persone e ognuna si costruisce fisicamente il suo luogo personale, non vede nulla fuorché un continuo, lento cambiamento di luce e colore, non sente nulla che porti un chiaro segno di direzione: una condizione particolare che porta a perdere il proprio ego. Una delle ragion d’essere musicista è far sì che questi momenti siano amplificati e presenti, e il suono può condurti in questo pauroso ma magnifico stato.

Quale ruolo hanno avuto nel passaggio dal viaggio reale a quello percettivo i quaderni di viaggio? Avranno un futuro o resteranno strumenti di lavoro?
Claudia Sorace: Ci piace l’idea che ci sia del mistero, come se avessimo affiancato il nostro viaggio passato a quello del pubblico futuro. Tutto ciò che è stato una guida per noi, gli scritti di Baudrillard, la ricerca scientifica sulla percezione del tempo, lo studio sulle vibrazioni, dagli esperimenti di artisti come Brion Gysin alle onde binaurali, passando per il rinascimento psichedelico, ogni frase, ogni parola, è un compagno di viaggio. Le pagine del diario, presenti nell’anticamera che accoglie il pubblico, sono tangenti all’esperienza, sono sottili indicazioni per possibili viaggi. Rispetto all’esito futuro non sappiamo come questo materiale si riverbererà e dove un giorno lo porteremo. Di certo l’indagine sul tempo continua: nel prossimo futuro la faremo dialogare con uno dei testi più classici del teatro, Le tre sorelle di Čechov.

Margherita Dellantonio

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Margherita Dellantonio

Margherita Dellantonio

Laureata in Beni Culturali con un percorso ibrido tra la storia dell'arte e dello spettacolo, i suoi studi e la sua ricerca si concentrano attualmente sulle arti performative contemporanee. Ha collaborato al progetto editoriale "93 % - materiali per una…

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