La Sicilia nel cuore, per l’ennesima volta set d’eccezione e ispirazione creativa. Dolce & Gabbana tornano nell’amata isola per promuovere la collezione Fall-Winter 2021, sfornando una serie di scatti e uno short video. La firma dietro la campagna è di quelle che fanno la differenza: l’austriaco Jurgen Teller, maestro della fotografia di moda e non solo, ha curato ogni dettaglio, tirando fuori persino la colonna sonora, un’ipnotica, asciutta sequenza di suoni elettronici e di parole chiave ripetute in loop.
Stavolta nessuna celebre piazza storica, parco archeologico, palazzo settecentesco o rinomato mercato popolare. Né grandi città, né paesaggi d’incanto. D&G scelgono Gela, antichissima cittadina siciliana del nisseno, con una forte identità storico-archeoloigica e uno straordinario patrimonio di testimonianze greco-romane, dall’acropoli alle terme ellenistiche, dalle famose mura timoleontee fino alle catacombe paleocristiane; un luogo, purtroppo, segnato nei decenni da un incontrollato abusivismo edilizio, dall’assenza di agevoli collegamenti stradali, dall’impatto ambientale pesante del petrolchimico Eni, dai mancati progetti di riqualificazione urbana e di sviluppo. Gela, che oggi diventa teatro di un racconto visivo imbastito da uno dei marchi di punta dell’alta moda internazionale e del Made in Italy, con tutti i benefici che ne potrebbero venire in termini di visibilità.
UNA HOLLYWOOD DI PROVINCIA
La parata di giovani modelli è tutto un luccichio di lustrini, tessuti sintetici e vernici, pellicce ecologiche, maxi jumpsuit arcobaleno che più anni ‘80 non si può, tutine stretch glitterate, piumini dorati super hi-tech, trionfi di fuxia, animalier, argento e oro, tacchi a spillo con punte acuminate e mastodontiche sneaker, il tutto mixando con vocazione da coatti deluxe un po’ di punk, glam, trap. Con loro un asinello-mascotte, immancabile reperto della Sicilia contadina, completamente decontestualizzato per un effetto surreale non male. Sullo sfondo giganteggia l’insegna del Multicinema Hollywood, che imita la monumentale “Hollywood Sign” del Monte Lee, ma in un contesto che di hollywoodiano ha ben poco. Lo scorcio è quello di un quartiere di periferia, con un certo sapore di desolazione, che potrebbe essere un angolo di una qualunque suburbia, habitat di una crew di giovani belli, dannati, stilosi, con il loro arsenale di oggetti griffati e gli outfit di tendenza, fra atmosfere da strada e ostentazione del lusso. Un gioco di contrasti che orienta l’intero progetto: nel caso del video, non uno dei consueti corti a cui ci hanno abituato D&G, non un nuovo racconto imbevuto di atmosfere languide, stereotipi pop, sensualità e romanticismo da rivista patinata, spesso con la regia di firme autorevoli e con la partecipazione di volti noti dello star system. Qui non c’è cinema, non c’è azione, non c’è lavoro di fotografia e di scenografia. Più un montaggio di istantanee, un book con ripetitivi colse-up su dettagli degli abiti e sul marchio D&G, esaltato spasmodicamente senza timore dell’effetto tamarro. Per il resto, qualche angolo del quartiere, una palizzata sfondata, un portone povero e malconcio, muri qualunque e ringhiere arrugginite.
QUANDO LA GRANDE FIRMA NON BASTA
E qui le polemiche, serpeggiate tra i commenti sui social: perché mostrare di Gela un frammento anonimo del centro, scartando luoghi storici, monumentali, paesaggistici, che ne avrebbero restituito la parte migliore?
In realtà è questo l’aspetto più interessante di questo piccolo prodotto piuttosto mediocre, che evidentemente puntava solo sul peso del marchio e sulla celebrità del regista/fotografo: l’aver scansato il cliché di una comunicazione a misura di turista, l’aver evitato la retorica da città-bomboniera, città-spot, città-cartolina. Non la solita celebrazione del bello ad ogni costo. Scegliere un angolo di verità, con tutta la sua eloquente desolazione di provincia – rafforzata da quell’insegna triste che fa il verso alla Mecca del cinema americano – e piazzarci i personaggi di un sobborgo underground, diluendo miseria e ricerca dello status symbol. Peccato non averlo fatto meglio e in modo convincente, approfondito. Peccato non aver costruito, con un buon linguaggio visivo e un vero lavoro di regia, una riflessione sull’estetica del luogo e sulla sua possibile forza, in termini di ruvidità, di contrasti, di dettagli prosaici, di malinconia, di sgangherata autenticità, persino di poesia. Buone le intenzioni, decisamente meno il risultato.
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