Venezia 78: la storia di Daniele nel film Atlantide di Yuri Ancarani
L’artista e regista presenta un documentario ambientato nella Laguna veneziana. Un one man show senza sceneggiatura
Atlantide nel film di Yuri Ancarani è la Laguna veneziana, chiusa da isole ai margini della città sontuosa e attraversata da barche che navigano sulle acque piatte. Atlantide è anche la terra di nessuno di una generazione di ventenni storditi da un luogo innaturale e troppo acquatico per un mondo contemporaneo frenetico e veloce che di anfibio ha solo lo schermo liquido degli smartphone. “Atlantide” è un film che cerca di ricucire la bellezza senza tempo di Venezia con il vuoto del presente. Primo lungometraggio di un artista visivo e video visivo che giunge alla Mostra del Cinema (sezione Orizzonti) con un’opera prima da lui scritta, fotografata, montata e diretta dove si narra la storia di Daniele, un ragazzo che vive a Sant’Erasmo, frammento di terra emersa ai margini della laguna. Qui Daniele perde il suo giovane tempo nel ripetersi di giornate lente con l’unico progetto di costruire un motore potente per il suo barchino, più potente di quello dei suoi coetanei imprigionati, come lui, nella noia e nei motoscafini.
DANIELE PROTAGONISTA DEL FILM DI ANCARANI
Daniele ha un volto spiritato, occhi grandi, denti storti e una fidanzata bruna, riccioluta, con piercing sopra il labbro e unghie smisurate laccate fucsia. Non sono belli, ma sono veri. Tanto veri che per tutta la prima parte del film, il passo di Ancarani resta quello documentario a cui ci ha abituato: la perfezione delle inquadrature, i colori saturi, il lento incedere dei movimenti di macchina, la discesa in un frammento, lo sguardo ravvicinato che taglia volti e corpi, i dettagli che ci parlano e la fusione di uomini /cose /spazio con quel collante potente che è l’uso di un suono quasi materico scolpito dallo straordinario Mirco Mencacci, molto più che un fonico. In più c’è la presenza da protagonista della musica firmata dal rapper Sick Luke, che stratificandosi sui rumori dei motori, lo sciabordio dei moli e lo scampanare dei campanili, invade tutto lo schermo e il tempo del film con il sottofondo del battito sordo dell’Hip Hop. Niente sceneggiatura, dialoghi persi in un chiacchiericcio slabbrato, narrazione affidata esclusivamente alle immagini.
UN FILM SENZA SCENEGGIATURA
“Atlantide, scrive Ancarani nelle note di regia “è un film nato senza sceneggiatura. I dialoghi sono rubati dalla vita reale, e la storia si è sviluppata in divenire durante un’osservazione di circa quattro anni, seguendo la vita dei ragazzi. Questo metodo di lavoro mi ha dato la possibilità di superare il limite di progettazione tradizionale nel cinema: prima la scrittura e poi la realizzazione. Così il film ha potuto registrare in maniera reattiva questo momento di grande cambiamento di Venezia e della laguna, da un punto di vista difficile da percepire, attento allo sguardo degli adolescenti. Il desiderio di vivere così da vicino le loro vite, dentro i loro barchini, ha reso possibile tutto il resto: Il film si è lentamente costruito da solo”. Non ha funzionato esattamente così e la costruzione appare incompleta. La mancanza di sceneggiatura, di cui nei precedenti cortometraggi di Ancarani non si sentiva affatto la mancanza, in un film di un’ora e 44 minuti si trasforma in un limite.
UNA DIFFICILE RICOSTRUZIONE
La storia (se così si può dire) comincia dopo i primi quaranta minuti quando appaiono alcuni elementi che ci fanno intuire un possibile sviluppo narrativo. Ma quello sviluppo invece resta diluito nelle sequenze che ritraggono (sia pur con talento) il dorso nudo di ragazzi; il passaggio delle grandi navi in un’inedita e imponente visione; le luci esagerate che si riflettono sulle acque; la notevole performance di un duo che “rappa” dentro un barchino smangiucchiando snack e tante altre belle cose che appaiono e scompaiono. E pur regalandoci icone e riuscendo nella difficile impresa di restituire ritratti inconsueti della città più filmata e fotografata del mondo si sente la mancanza dell’ancoraggio alla storia, della costruzione dei personaggi, dell’identificazione che lega spettatore e schermo. Nonostante gli echi del “We are who we are” di Luca Guadagnino nei corali ritratti di gioventù in laguna e alcuni solitudini di eroica quotidianità vicine all’intensa documentazione di Gianfranco Rosi (vedi la scena di raccolta notturna delle bottiglie di plastica), “Atlantide” sembra non saper prendere la sua strada, lasciando il sospetto che siamo ancora di fronte a un artista più che a un cineasta e che Il “one man show” di Yuri Ancarani regista, montatore, sceneggiatore e direttore della fotografia dovrebbe cedere il passo a una più condivisa costruzione del lavoro e maggiore equilibrio fra la forza visiva e la potenza narrativa.
– Alessandra Mammì
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