I dimenticati dell’arte. Salvatore Meo, l’artista del riciclo
Nato a Philadelphia, ma di origini italiane, Salvatore Meo ha fatto del riuso la sua cifra stilistica, collezionando alterne fortune. A riscoprirne il lavoro, in tempi recenti, è stato un giovane artista, classe 1989.
Durante la sua carriera ha assemblato oggetti trovati per quasi cinquant’anni, sviluppando un linguaggio artistico autonomo, che lo ha portato a esporre al Museum of Modern Art di New York, in occasione della mostra collettiva The Art of Assemblage, nel 1961. Un invito non casuale, visto che Salvatore Meo (Philadelphia, 1914 ‒ Roma, 2004) è stato uno dei primi artisti americani a utilizzare nelle sue opere materiali di scarto come oggetti di ogni genere recuperati dalla strada ‒ cassetti di mobili, giocattoli rotti, corde e fili, ferri arrugginiti.
LA STORIA DI SALVATORE MEO
Nato a Philadelphia da genitori di origine italiana, Salvatore compie i suoi studi d’arte nella sua città natale, alla University of the Arts, la Tyler School of Art e the Barnes Foundation, e lavora nello studio di Stanley Hayter. Nel 1949 vince una borsa di studio della Fondazione Tiffany che gli consente di studiare in Italia e due anni più tardi decide di stabilirsi a Roma, dove viene invitato a esporre alla galleria Chiurazzi. Nella Capitale entra in contatto con il critico Emilio Villa, che lo nomina redattore per gli Stati Uniti della rivista Arti Visive, diretta dallo stesso Villa, che ha promosso negli USA gli artisti del gruppo Origine (Alberto Burri, Ettore Colla, Mario Balocco e Giuseppe Capogrossi) insieme a Piero Dorazio, Enrico Prampolini e Achille Perilli, amici e colleghi di Meo. Ma l’arte del riciclo non ha vita facile: nel 1956 una sua opera viene rifiutata dalla giuria della Biennale di Venezia, giudicandola un prodotto non artistico, però due anni dopo Meo espone in Biennale. Nel 1961, in contemporanea con la sua partecipazione a The Art of Assemblage, è protagonista di una mostra antologica alla Charles Egan Gallery, con gli assemblaggi realizzati dal 1946 al 1961: nonostante le recensioni positive apparse sia sul New York Times sia su Art News, la carriera americana di Meo non decolla.
LA CARRIERA IN ITALIA
In Italia le cose sembrano andare diversamente: il lavoro dell’artista incontra diversi consensi soprattutto a Roma, dove si appassionano ai suoi assemblaggi Francesco Aldobrandini e Graziella Lonardi, oltre a Emilio Villa e Achille Bonito Oliva, che presenta la sua retrospettiva alla galleria CIAK nel 1971, curata da Bruno Corà.
Dieci anni dopo Meo è protagonista di una personale alla galleria Jartrakor, Assemblages informali degli anni 50: documenti sulla decadenza di Neo-Dada e la poetica dei detriti, mentre nel 1986 partecipa alla collettiva Roman Americans alla galleria Sala 1, dove la curatrice Edith Schloss accosta Meo a giganti come Sol LeWitt e Cy Twombly. Mario Verdone lo definisce “uno scavatore di detriti, un razzolatore di spiagge, un esploratore di cantine”: accumula opere su opere per decenni, oggi conservate nello studio in vicolo Scavolino, a due passi da Fontana di Trevi, gestito dalla Fondazione Salvatore Meo.
LA RISCOPERTA DI SALVATORE MEO
Negli Anni Duemila l’interesse per Meo sembra essersi risvegliato grazie alla mostra Reconstruction: the art of Salvatore Meo alla Pavel Zoubok Gallery di New York nel 2008. Il 24 settembre si inaugura a Spazio Mensa di Roma la doppia personale Environments ‒ Fondazione Salvatore Meo e Andrea Polichetti, dove l’artista Andrea Polichetti, classe 1989, presenta una serie di opere in dialogo con alcune rare sculture di Meo, selezionate all’interno della collezione della Fondazione Salvatore Meo. Così il lavoro di un grande dimenticato viene riproposto dopo 35 anni nella città dove aveva scelto di vivere e lavorare, grazie allo sguardo di un giovane emergente.
‒ Ludovico Pratesi
fondazionesalvatoremeo.blogspot.com
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