La cultura dell’interpassività
Il gusto della libertà, o almeno della partecipazione. Tutt’altra cosa rispetto allo schermo televisivo, rigido e invalicabile. È questa la sensazione che si provava quando nacque il concetto di ‘interattività’. E ora? Sembra che sia pervasiva e capillare, ma in realtà è il suo opposto. È interpassività.
Ricordo di aver letto La cultura del piagnisteo di Robert Hughes [1] verso la fine degli Anni Novanta. È un testo ancora valido, con una prospettiva interessante sulla società americana […]. Arguto, ironico, a tratti reazionario, il libro offre un utile promemoria dell’eccessiva connessione tra “politicamente corretto” e multiculturalismo.
Oggi, il primo decennio del nuovo secolo appena trascorso appare pervaso da un senso di “interpassività”. Ci lamentiamo sempre più del fatto che la nostra società sia assurda e ci sentiamo insoddisfatti, ansiosi; ma diciamolo: il (neo)capitalismo ci ha resi tutti “interpassivi”. Gli stessi collezionisti, di questi tempi, amano la nobile arte del “karaoke”, che a sua volta li rende interpassivi. Guardatevi intorno: molti stanno comprando e ricomprando sempre la stessa roba […].
Il critico culturale austriaco Robert Pfaller intende l’“interpassività” come un concetto opposto a quello di “interattività”, che implica “un piacere di consumo delegato” [2]. Uno degli esempi usati da Pfaller è la registrazione tradizionale di un programma televisivo mentre la persona non è in casa; il programma viene registrato, e poi messo via su uno scaffale, per non essere mai più guardato. […]
Oggi, nella nostra società orientata dai media e dalla tecnologia, l’interpassività è ovunque intorno a noi. È sufficiente recarsi in un museo come il MoMA, visitare una biennale come quella di Venezia, oppure andare a spasso per una fiera come ABMB, per osservare versioni sempre più esacerbate di questo fenomeno: migliaia di persone (molte giovani o giovanissime) non guardano nemmeno direttamente l’opera d’arte, ma entrano nello spazio espositivo con le loro videocamere o i loro iPhone e contemplano l’opera attraverso l’obiettivo o lo schermo.
Gilles Lipovetsky e Jean Serroy hanno già esplorato in diversi libri le modalità in cui lo schermo globale definisce la contemporaneità e “deregola” il tempo-spazio della cultura. Questa è, di fatto, una forma ulteriore di superstruttura fascista e totalitaria, che fornisce senza soluzione di continuità prodotti culturali popolari, preconfezionati, facili da comprendere […]: prodotti che ci rendono spettatori sempre più stupidi e passivi.
Vorrei andare anche oltre, sostenendo che siamo cittadini interpassivi in generale, e nel mondo dell’arte in particolare. Lasciate che mi spieghi. Il problema con il mondo dell’arte è che siamo troppo concentrati su noi stessi, e troppo disconnessi dalla società. Nella Primavera Araba, nel movimento spagnolo degli indignados “15-M”, e adesso in Occupy Wall Street, c’è una scarsissima presenza artistica rilevante. Ci piace molto firmare manifesti (leggi: Ai Weiwei), postare video su YouTube o su Facebook, inviare messaggi via Twitter. E questa è pura interpassività, dal momento che permettiamo ai media sociali di parlare al posto nostro. Ma i politici non sono interessati alla rappresentazione sui social media: sono impressionati e spaventati unicamente dalla presenza fisica (realtà) del cittadino nelle strade, che reclama un spazio pubblico – come avvenuto nella Plaza del Sol a Madrid, e a Zuccotti Park. Forse, per una volta, dovremmo essere onesti con noi stessi: ci consideriamo l’avanguardia intellettuale del sistema, ma occupare le strade e andare sulle barricate non è coerente con il nostro essere radical chic, perché le nostre scarpe Prada potrebbero sciuparsi!
Sentite che cosa scriveva Hughes: “La sinistra accademica è più interessata alla razza e al gender che alla classe. Ed è molto più interessata a teorizzare sul gender e sulla razza che a indagare su di essi. Ciò permette ai suoi saggi di sentirsi sulla cresta del cambiamento sociale, senza fare lavoro sul campo fuori dall’ambito accademico” [1]. Potremmo aggiungere che la differenza principale oggi è l’emersione di un reale conflitto tra le classi superiori da una parte, e la classe media e bassa dall’altra.
“Il dipinto politico più celebrato”, prosegue Hughes, “universalmente riprodotto e riconoscibile del XX secolo è ‘Guernica’ di Picasso, che non ha modificato di un’oncia il regime di Franco. Non ne ha accorciato la durata, neanche di un singolo giorno. Ciò che cambia realmente l’opinione politica sono i fatti, il dibattito, le foto giornalistiche, e la TV” [2]. Ma l’arte ha perso la sua battaglia contro la televisione, il cinema, la pubblicità, la musica. E le sue premesse autistiche, elitiste e borghesi non sono in grado di connettersi ai movimenti sociali o politici reali.
Paco Barragán
[1] Robert Hughes, La cultura del piagnisteo. La saga del politicamente scorretto [1993], Adelphi, Milano 2003.
[2] Robert Pfaller, Backup of Little Gestures of Disappearance: Interpassivity and the Theory of Ritual, “Journal of European Psycoanalysis: Humanities, Philosophy, Psychotherapies”, n. 16, 2003, www.psychomedia.it/jep/number16/pfaller.htm.
Traduzione dall’inglese di Christian Caliandro. La versione originale di questo articolo è uscita su ArtPulse, n. 10, Winter 2011/2012
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