Bandi pubblici? Trasformiamoli in bandi-corso
Spesso chi si candida ai bandi pubblici non sa scrivere un progetto o, di contro, non sa realizzarlo. E allora perché non introdurre dei bandi-corso, in cui i soggetti selezionati vengono seguiti in ogni fase progettuale?
In questo momento di grandi opportunità di finanza pubblica – e non solo –, il problema che più emerge è la reale capacità di fare progetti. Fare progetti è purtroppo un mestiere. Società e professionisti vivono di progetti scritti e confezionati per altri; qualcuno, nella maturata abilità di saper fare progetti, ha smarrito il core business originario, ovvero: “Ti so scrivere come erogherei quel servizio che chiedi ma non so più come farlo realmente”.
Spesso mi trovo a far parte di commissioni che assegnano fondi o spazi o scelgono fornitori a cui affidano servizi. Purtroppo i candidati si dividono sempre in due categorie: quelli che sanno fare i progetti e presentano offerte impeccabili; e quelli che non si sanno raccontare, non sanno descrivere cosa intendono fare, si dimenticano qualche documento o di dire qualcosa. I primi, il più delle volte, non sanno poi fare il lavoro che è stato loro affidato, o non hanno idee, sono ordinari e obsoleti; gli altri, bravissimi nel fare il lavoro magari, non prendono però mai un affidamento, perché non hanno saputo confezionare un proposta vincente, secondo le regole del bando.
“I bandi sono fatti male, non premiano il merito, spesso sono anche vessatori nelle richieste di garanzie o di remunerazione”.
Il rapporto amministrativo tra finanza pubblica erogatrice e impresa privata affidataria e somministratrice di servizi ha deformato questa relazione. L’ha concentrata tutta nella robustezza delle procedure e nell’affidabilità delle dichiarazioni, perdendosi per strada la qualità dei contenuti. A questo si aggiunge che chi aggiudica spesso non fa neanche i controlli. Quindi, chi fa proposte porta qualcosa di ordinario o di vuoto. Chi assegna è tutto proteso nella formalità della proposta e non cerca e non “legge” cosa c’è di vero e di buono.
A regime spesso i servizi sono scarsi, nessuno li controlla, se non l’insoddisfazione dell’utente, e quello che potrebbe essere un comparto sano e virtuoso di rapporto pubblico-privato diventa l’ennesimo spreco di risorse della collettività. Perché ad esempio dentro le strutture (musei, eventi, ma anche scuola, ospedali) i servizi ristorativi sono sempre scadenti? Perché il sostegno pubblico lo prendono sempre gli stessi, che non portano innovazione né qualità?
L’ESEMPIO DEI SERVIZI AGGIUNTIVI
Certo, sto massimizzando, ma è veramente la maggior parte degli affidamenti pubblici: non vince il migliore ma il più abile. Si prendano i servizi aggiuntivi nella cultura. La ristorazione italiana è un fiore all’occhiello ovunque, e poi dentro i luoghi pubblici è spesso cara, quasi sempre scarsa di qualità. I bandi sono fatti male, non premiano il merito, spesso sono anche vessatori nelle richieste di garanzie o di remunerazione. Chi sa fare il lavoro ha le idee, magari non sa scrivere, non sa mettere insieme le mille carte documentali richieste.
Allora la mia proposta – sì, ce l’ho la soluzione, non mi limito all’accusa – è di fare dei bandi-corso, dove si selezionano capacità tecnica e intrapresa e poi si accompagna il fornitore/concessionario a costruire un progetto remunerativo per lui, rassicurante per la stazione appaltante, soddisfacente per l’utente.
‒ Fabio Severino
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #61
Abbonati ad Artribune Magazine
Acquista la tua inserzione sul prossimo Artribune
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati