Connubi e libertà. 10 anni di Swatch Art Peace Hotel al MAXXI

In occasione dell’anniversario della residenza artistica diretta da Carlo Giordanetti, il brand svizzero di orologi innovativi porta una ventina di artisti da tutto il mondo a Roma

Un angolo di Shanghai, e del mondo intero, nel cuore del MAXXI: trovano casa nella sala Gian Ferrari i progetti realizzati da un folto gruppo di artisti che negli anni hanno partecipato alla residenza d’artista di Swatch, l’Art Peace Hotel. La ventina di lavori in mostra – che recuperano l’idea di portare gli artisti “fuori le mura” iniziata nel 2013 – raccontano dal primo ottobre la scommessa del brand svizzero di orologi, che a conti fatti può definirsi vinta: creare una comunità di creativi di ogni sorta che sia in perenne evoluzione e permetta loro di fare arte senza vincoli. Tutto, in un luogo dalla forza straordinaria. Opere pittoriche e piccoli mondi luminosi, sculture al neon e dépliant artistici, compenetrazioni e incursioni tra tecniche e discipline diverse, dalla tessitura al ricalco, passando per la creazione di una biosfera: ogni lavoro riflette la visione ariosa del CEO dello Swatch Art Peace, Carlo Giordanetti. Le opere in mostra sono di Eva Borner, Luca Bray, Paolo Cavinato, Sandro del Pistoia, Anita Gratzer, Cecilia Jansson, Nici Jost, Jessie Yingying Gong, Aniwar Mamat, Miguel Moreno Mateos, Caitlin Reilly, Tracey Snelling e Donal Turner. Parte integrante della mostra è la sezione dedicata al lavoro di videoartisti e filmmaker, che verrà rilasciata gradualmente il 6, 13 e 20 ottobre con lavori di Lei Lei, Liu Bohao, Michael Maurissens, Elizabeth Lo, Mujin e Cyril Galmiche.

LO SWATCH ART PEACE HOTEL DI SHANGHAI

Inaugurata nel 2011 per rendersi visibili e interessanti nel mercato cinese, la residenza artistica di Swatch a Shanghai ha ospitato più di 400 artisti provenienti da 54 Paesi, diventando uno dei centri nevralgici dell’arte contemporanea della metropoli. Lo Swatch Art Peace Hotel, nato all’interno di un monumento culturale nel cuore dell’antico quartiere finanziario della città, coniuga l’ambiente commerciale e product-centered con un hotel di lusso e una serie di appartamenti-atelier – due piani su sei sono proprio riservati agli studi e alle residenze dei diversi artisti, che possono arrivare a essere 18 contemporaneamente e restare per un massimo di sei mesi. A metà tra una casa e un luogo di passaggio, l’albergo incarna il sentimento di “realtà altra” dove gli artisti – che possono essere poeti, musicisti, fotografi, pittori, videoartisti e scultori – si contaminano e influenzano a vicenda, creando
opere multidisciplinari e collaborative. “Moreno Mateos ha creato un’opera che fonde in sé arte, biologia e tecnologia, cosa che ha stimolato un compositore a creare una colonna sonora ad hoc: il prodotto finito era molto più ricco. Simile la collaborazione, anni fa, tra Eva Borner e un coreografo basco, che stava componendo una danza sulle macerie dei palazzi storici di Shanghai abbattuti per fare spazio ai grattacieli”, racconta Giordanetti. “Uscivamo tutte le mattine alle cinque per andare sul campo, io seguivo ogni suo movimento e l’ho incapsulato in tre video, che si allontanavano progressivamente dal suo corpo per far capire il contesto. Un altro artista irlandese ha costruito la colonna sonora a posteriori”, spiega la stessa Eva Borner, che al MAXXI ora porta un progetto fotografico con simboli di evasione e viaggio interrotti – fiorito dalla necessità di libertà nella clausura della pandemia. Di simile natura lo spirito che ha spinto Snelling a creare un meraviglioso diorama dedicato al “Motel dell’anno perduto” incapsulando i momenti di maggiore solitudine in un ricordo a lei caro, quello dei motel che incontrava nei lunghi viaggi di famiglia negli spazi aperti americani. E poi ci sono la poetica opera “aerea” di Luca Bray, che fonde la memoria della nebbia padana con le suggestioni e i ricordi accumulati in terra messicana, i vestiti di Anita Gratzer che ripercorrono le tradizioni popolari e la storia dall’Oriente all’Europa, e i grandi teli rosa di Nici Jost. Ora, a causa del virus, gli artisti ospitati sono quasi tutti cinesi: quando è scoppiata la notizia, nel febbraio 2020, gli artisti erano quasi tutti rientrati. “Tutti, tranne una coppia sposata di musicisti arrivata qui in treno dalla Spagna, che crea strumenti musicali in viaggio e compone solo all’arrivo, dove esegue l’opera”, racconta Giordanetti, che in dieci anni dell’Art Peace ha collezionato aneddoti e prospettive da ogni angolo del pianeta, attraverso tutti gli artisti che hanno deciso di fare application. “Noi non scegliamo chi invitare, sono gli artisti a mandarci la propria candidatura proponendo un progetto. Noi valutiamo cosa è stato fatto fino a quel momento, ma soprattutto il progetto – cosa che ci permette di invitare anche dei giovani con esperienza relativa”, spiega Giordanetti, che fa nurturing ma non impone una curatela chiusa, per poi aggiungere: “È un luogo aperto veramente a tutti, basta avere 21 anni e un’idea”.

SWATCH E L’ARTE

Che Swatch e l’arte vadano a braccetto, è cosa nota. Celebri le collaborazioni con il Guggenheim, il MoMA e le Biennali, cruciali i lavori con grandi iniziatori come Haring, LaChapelle e Yoko Ono. “In questo siamo stati un po’ pionieri”, spiega Giordanetti. “Il nostro primo approccio all’arte è del 1985 per il lancio di Swatch in Francia: dovevamo fare qualcosa di speciale, non eravamo ancora presenti in molti mercati e dovevamo dimostrare il nostro valore oltre la targhetta del prezzo. Quindi abbiamo coinvolto un artista parigino che ha fatto 140 esemplari tutti diversi e unici. Ha avuto una grande visibilità: poi è venuto il Belgio, poi la Fondazione Maeght ha fatto un progetto di altissimo profilo con Valerio Adami, Pol Bury e Pierre Alechinsky. Lì si è cominciato a capire il potenziale: è arrivato Keith Haring, non aveva ancora aperto il Pop Shop ed era ancora molto innocente”. Quella prima intuizione del fondatore, Hayek, che voleva dimostrare il valore dell’orologio oltre la plastica e il colore ha portato l’azienda a una continua sperimentazione che tocca arte, design, grafica. Quarant’anni e diecimila orologi dopo, inclusi i nuovi modelli con plastica rigenerata e bioceramica, Swatch continua a innovare, rimanendo fortemente connessa con il prodotto. Cosa di cui nessun artista risente, anzi: “Quando siamo andati a chiedergli se voleva collaborare, Damien Hirst mi ha detto ‘finalmente, mi chiedevo proprio perché non mi aveste ancora chiesto di fare uno Swatch’. Per gli artisti”, racconta Giordanetti, “è una meraviglia vedere la propria opera alle nove e mezza del mattino in metrò, la sera in discoteca, a cena in pizzeria. L’oggetto d’artista così pensato entra nella vita delle persone in una maniera che l’oggetto di design non può fare: ti accompagna. Nessuno di noi ha bisogno dell’orologio per leggere l’ora, abbiamo tutti il telefono, è una scelta che facciamo per avere un’immagine completa, è uno style signifier. Poi noi italiani che ci agitiamo con le mani lo rendiamo molto parte della nostra persona”.

– Giulia Giaume

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Giulia Giaume

Giulia Giaume

Amante della cultura in ogni sua forma, è divoratrice di libri, spettacoli, mostre e balletti. Laureata in Lettere Moderne, con una tesi sul Furioso, e in Scienze Storiche, indirizzo di Storia Contemporanea, ha frequentato l'VIII edizione del master di giornalismo…

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