Il boom delle rotatorie a regola d’arte
Autentico landmark del paesaggio italiano, le rotatorie diventano sempre più spesso luoghi di espressione di un’arte opinabile. Ma perché non lasciarle vuote?
Qualche giorno fa mi sono svegliato accaldato e agitato, avevo fatto un terribile incubo. La missione era compiuta. Con un equipaggio preparato e numeroso, con mezzi e strumentazione all’avanguardia avevamo finalmente conquistato il Pianeta Rosso. Unico neo di quella straordinaria operazione internazionale – in cui il sottoscritto era coinvolto – nonché motivo che mi aveva causato i sudori freddi nella tuta spaziale (e sotto le lenzuola): invece dell’acqua, al posto di chissà quali materie riutilizzabili, su Marte avevamo scoperto solo uno sterminato agglomerato di rotatorie, bellamente “decorate” da supposte opere d’arte di dubbio gusto.
L’ANNOSA QUESTIONE DELLE ROTATORIE
Delle inquiete notti di chi scrive a nessuno interessa, ma sul fattore scatenante del brutto sogno forse si può dire qualcosa. “C’è stato un tempo Prima della Rotatoria e un tempo Dopo la Rotatoria”: esordisce così Emanuele Galesi in quel prezioso volume che è l’Atlante dei Classici Padani, opera a più mani nata da un’idea di Filippo Minelli. “L’espressione massima della rotonda è raggiunta però con l’opera d’arte al centro”, continua Galesi, “la scultura finanziata per accogliere il viaggiatore, per installare un simbolo della zona, per celebrare la potenza dell’imprenditore, per dimostrare una vitalità creativa mai sopita”.
Nella “Macroregione” che – nata dall’idea di una possibile affiliazione politica di stampo leghista di aree del Piemonte e del Veneto alla Lombardia – si è espansa oltre i suoi confini naturali e artificiali, le “rotonde” (così vengono chiamate in tono confidenziale) sono ormai un landmark eccezionale. La loro diffusione e la loro popolarità, verrebbe da dire, è diffusa su tutta la Penisola, con aree ad altissima densità, come quella della Via Emilia per esempio, a cui Maurizio Finotto sta dedicando una ricerca che confluirà nel road movie Miraggi di Pianura. Nelle immagini del film, definito così perché tecnicamente girato in Super8, alcuni rondò occupati da oggetti plastici che fatichiamo a definire “installazioni” si succedono uno dopo l’altro dispiegando una varietà di mezzi, supporti e ipotesi compositive più vicine alla fiera dell’edilizia che al parco di sculture.
ROTATORIE E ARTE
Quand’è che è stato deciso che ogni spazio di questo tipo dovesse accogliere un’opera? Come si è passati dalla manutenzione privata di un luogo pubblico alla possibilità di utilizzarlo come cartellone pubblicitario? Certo, alcuni esempi illuminati non mancano, di recente proprio sull’asse emiliano romagnolo lo ha fatto la Fondazione Dino Zoli a Forlì con l’opera di Massimo Sansavini, ma le percentuali sono ahinoi di gran lunga a favore dell’altro versante. Ora la soluzione più semplice potrebbe essere quella seguita in molti casi simili di arte nello spazio urbano, lasciare spazio ai giovani attraverso chiamate aperte e investimenti risibili. E invece no, perché non sfruttare l’occasione per provare a proporre una riflessione sulla dissennata estetizzazione di infrastrutture e arredi urbani? Perché non fermarsi, per una volta, ad ammirare il vuoto?
‒ Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #61
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