Sardonico e solenne. Damien Hirst a Roma da Gagosian
In mostra nella sede romana di Gagosian nuovi dipinti e un corpus di sculture estratto dal progetto “Treasures from the Wreck of the Unbelievable”. Un’occasione per riflettere sull’ultima produzione di Damien Hirst.
Damien Hirst (Bristol, 1965) è ancora sardonico e solenne, ma ha perso smalto. Sono le conclusioni cui conduce la mostra romana negli spazi di Gagosian. Provocatorietà e sfrontatezza non sono in discussione, ma si è attenuata la sua sfolgorante cupezza, caratteristica in virtù della quale si parlò di lui come del “Caravaggio del nostro tempo” (se ne uscì così, brillantemente, una quindicina d’anni fa un noto politico italiano).
Cartina di tornasole di questo affievolimento è che i nuovi progetti risultano troppo imperniati sulla serialità, peculiarità che contraddistingue il lavoro di Hirst da sempre, ma che solo ora va ad assumere connotati stucchevolmente preponderanti.
HIRST IN MOSTRA A ROMA
La mostra si compone di nuovi dipinti e alcune (non poche) sculture tratte dallo straripante progetto Treasures from the Wreck of the Unbelievable. Chi non lo ricorda? Nel 2017 occupava, a Venezia, sia Palazzo Grassi che Punta della Dogana. Ora altri pezzi tratti da Treasures sono visibili, in parallelo, sempre a Roma, alla Galleria Borghese.
Trait-d’union fra i due gruppi di opere il fatto che si tratta di lavori tradizionali da un punto di vista formale, all’apparenza addirittura espressionisti, ma strutturati secondo codici processuali e pop, mediante concept stringenti che vanno a generare una molteplicità di pezzi potenzialmente allargabile all’infinito.
La provocatorietà di questi lavori consiste nel richiamare, mescolandoli, epos mitico e mitologia pop, nel caso delle sculture, e pittura concettualista e attitudine primitivista, nel caso dei grandi quadri. Ovverosia, guardandoli più da vicino, da un lato i personaggi della Disney e l’ambivalente senso di morte/eternità proprio dell’estetica archeologica; dall’altro, un secolo e più di ricerca pittorica analitica e autoriflessiva (da Seurat in avanti), e un alfabeto espressivo – viceversa – crudo e naif.
HIRST COME CATTELAN?
Si tratta di progetti senz’altro intelligenti e ineccepibili. Ma, va detto, troppo più deboli rispetto a quelli con cui Hirst aveva stregato il mondo, i quali apparivano meno congegnati, più urgenti e irrelati, in possesso di un mordente e di un “quoziente d’arte” – così Duchamp sull’impronosticabile quid aggiuntivo che è dell’opera d’arte riuscita – notevolmente maggiori.
Calza il paragone con Maurizio Cattelan, al quale Hirst può essere affiancato almeno per la visionarietà scura e dirompente. Solo che Cattelan sta molto attento da questo punto di vista, è meno indulgente rispetto al format monstre e si muove in modo più sorvegliato rispetto a un’estetica della serialità.
‒ Pericle Guaglianone
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati