San Francisco riscopre Joan Mitchell, la pittrice che amava la poesia
Pittura, musica e poesia si intrecciano nella produzione di Joan Mitchell, alla quale il San Francisco Museum of Modern Art dedica una ricca retrospettiva.
“Musica, poesie, paesaggio, cani mi fanno venire voglia di dipingere… E dipingere è ciò che mi consente di sopravvivere”. Con queste semplici parole, Joan Mitchell (Chicago, 1925 ‒ Neuilly-sur-Seine, 1992) aveva parlato in una occasione della propria pittura, scelta esistenziale che compie appena dodicenne. La sua figura è ricostruita nella retrospettiva che le dedica il Museum of Modern Art di San Francisco (co-organizzata con il Baltimore Museum of Art, dove approderà il prossimo anno, per fare quindi tappa alla Fondation Louis Vuitton a Parigi).
LA MOSTRA A SAN FRANCISCO
La mostra, che occupa l’intero quinto piano del museo, racchiude un’ottantina di opere, a comprendere in maniera rappresentativa l’intero arco produttivo, dall’esordio negli Anni Quaranta fino all’epilogo nell’ultimo decennio del Novecento. Classicamente ordinata in senso cronologico, l’esposizione è mossa dal proposito – espresso da Sarah Roberts, una delle due curatrici – di “muovere Mitchell fuori dai confini dell’Espressionismo astratto”.
A quest’ambito è infatti principalmente legata la storicizzazione del suo nome, da alcuni anni al centro di un rinnovato interesse che ne ha indagato la figura di donna in un paesaggio artistico marcatamente maschile (la pittrice compare fra le protagoniste di Ninth Street Women di Mary Gabriel, uscito qualche anno dopo la biografia Lady Painter). L’intento è raggiunto grazie a un allestimento calibrato, che organizza i dipinti secondo nuclei tematici paralleli alla turbinosa vicenda biografica (sebbene cercando di stemperarne i contorni sensazionalistici). Le dieci gallerie seguono così un itinerario geografico che inizia dagli Stati Uniti – lungo l’asse fra la Chicago della nascita e prima formazione e la New York degli Anni Cinquanta – e la conduce, attraverso un periodo di transizione in cui fa la spola fra New York e Parigi (1955-59), a stabilirsi in Francia; prima nella capitale (1959), quindi nel contesto bucolico di Vétheuil (dal 1968). Alla linea biografica portante s’intersecano sezioni tematiche dedicate ad aspetti specifici della pratica artistica, quali ad esempio il rapporto con la poesia e la musica. Tracce materiali (fotografie, taccuini, video, materiali effimeri, pubblicazioni), raccolte in vetrine, scandiscono la teoria dei quadri.
LA PITTURA DI MITCHELL
Il ritratto di Mitchell che la mostra (accompagnata da un poderoso catalogo) disegna è quello di una pittrice capace di coniare un linguaggio astratto di matrice gestuale che trova nella natura – e in particolare nel tema del paesaggio, filtrato dal ricordo e dal feeling – le ragioni costitutive: “Non potrei mai certamente rispecchiare la natura. Mi piacerebbe più dipingere cosa essa mi lascia”, afferma. La dimensione fisica della sua pittura, il cui agonismo sembra quasi proseguire la carriera sportiva abbandonata in giovane età, vive una libertà che l’autrice voleva “piuttosto controllata”: la tensione espressiva che dal secondo dopoguerra aveva imposto gli Stati Uniti al centro della scena artistica mondiale è coniugata con la lezione della tradizione europea – squisitamente francese – della pittura di paesaggio, impressionista e post-impressionista. Una continuità che diventa fisica quando Mitchell si trasferisce nella spettacolare proprietà di Vétheuil che vide già ospite Monet, e si dichiara nel dialogo pittorico con maestri come van Gogh (del quale rivisita il Campo di grano con volo di corvi) e Cézanne, cui è dedicata una galleria dell’esposizione.
DALL’ARTE ALLA PAROLA
Il linguaggio foggiato negli Anni Cinquanta è indirizzato secondo varie velocità nei cicli dei successivi decenni, piegato a intenzioni molteplici che investono colore, gesto, composizione; tecniche diverse (alle tele è affiancata una selezione di carte) e formati, che spaziano dalle piccole dimensioni alle grandi composizioni a pannelli multipli, ne verificano la crescente ambizione. Nel saggio in catalogo, Jenni Quilter paragona in maniera illuminante questa complessa articolazione alla pagina scritta, cui rimanda anche l’uso del bianco per creare “spazio e luce”, alla stregua dell’interruzione del verso poetico. La qualità musicale è un’altra delle dimensioni sinestesiche della pittura di Mitchell su cui la retrospettiva si sofferma attentamente.
L’avventura pittorica prosegue, fra “solitudine” e “pienezza”, fino alla morte, forse memore delle parole dedicate dall’amico Frank O’Hara: “L’unica cosa da fare è semplicemente continuare / è così semplice / sì, è semplice perché è l’unica cosa da fare”.
‒ Simone Ciglia
San Francisco // fino al 17 gennaio 2022
Joan Mitchell
SFMOMA – SAN FRANCISCO MUSEUM OF MODERN ART
151 Third Street
www.sfmoma.org
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