“Non è accettabile che un bianco trasformi la sofferenza dei neri in profitto e divertimento”. Così l’artista Hannah Black in una lettera indirizzata quattro anni fa ai curatori della Whitney Biennial, a cui chiede di rimuovere dalla mostra il quadro Open Casket di Dana Schutz. Il soggetto dell’opera è Emmett Till, un afroamericano di quattordici anni linciato da due bianchi il 28 agosto 1955 perché sospettato di aver importunato una ragazza bianca. I due assassini vennero assolti da un tribunale (di soli uomini bianchi) in poco più di un’ora di deliberazione. Alcuni decenni dopo si scoprirà che l’accusa era falsa. Ora, cosa c’è di male nel fatto che, sessantadue anni dopo, un’artista scelga questo soggetto per un suo quadro sull’onda dell’indignazione, come racconta lei stessa, “per una lunga e violenta estate di sparatorie di massa, raduni pieni di discorsi di odio e uomini di colore che vengono fucilati dalla polizia come in un’esecuzione”? Nella sua lettera aperta Black risponde lapidaria: “Sebbene l’intenzione di Schutz possa essere quella di presentare la vergogna bianca, questa non è correttamente rappresentata da un artista bianco che dipinge il cadavere di un ragazzo nero”.
IL LIBRO DI TALON-HUGON
Il caso Open Casket (per un resoconto critico di tutta la vicenda, rimandiamo al bell’articolo di Riccardo Venturi) è solo uno tra i tanti esempi di una nuova forma di censura a sfondo morale/politico/etnico che Carole Talon-Hugon, docente di filosofia dell’Université de Nice-Côte d’Azur, analizza in L’arte sotto controllo, uscito da poco in traduzione italiana. Quanto c’è di nuovo, si chiede l’autrice, nel dibattito attuale, spesso caratterizzato da estremismi e semplificazioni che ricordano le vecchie forme di censura o le discussioni sull’arte impegnata di molti decenni fa? Alcune novità ci sono. Per dirne una, laddove un tempo l’artista sembrava incarnare naturalmente la trasgressione, oggi è sempre più spesso una figura che ambisce a presentarsi dalla parte del bene e del politicamente corretto, fino al punto di invocare la censura per i colleghi che “sbagliano”. Inoltre, “la censura di cui parliamo non dipende più dallo Stato, come accadde nel processo contro ‘Madame Bovary’ di Flaubert nel 1857, o in quello contro ‘I fiori del male’ di Baudelaire nello stesso anno […]. Il luogo della censura non è più il tribunale, ma i media; il suo modus operandi specifico diventa la petizione, la tribuna, la manifestazione e il linciaggio mediatico”.
Il libro ha certamente dei limiti (cfr. la severa recensione di Marco Enrico Giacomelli su queste pagine), tra cui qualche assenza eclatante tra i riferimenti e una visione francocentrica del mondo dell’arte. Ma la brevità de L’arte sotto controllo può rivelarsi anche un pregio per il grande pubblico e per gli studenti, che vi possono trovare riassunte varie questioni legate al rapporto tra arte contemporanea e politica, o tra etica ed estetica, oltre che una cornice storica (minima ma non banale) in cui inquadrare idee, autori e teorie sulla funzione dell’arte: da Tolstoj, che predicava una scrittura “trasparente”, buona solo se esprimeva idee buone (per nostra fortuna non si attenne lui per primo a questo tremendo programma), ad Adorno, che all’opposto considerava l’assoluta autonomia dell’arte ‒ il suo astenersi da ogni pretesa di utilità morale o politica ‒ come il suo contributo politico più genuino in quanto spazio di resistenza alla logica pervasiva del capitalismo.
ARTE ED ETICA
Ma facciamo un passo indietro. “La questione non viene quasi mai affrontata, eppure è di importanza basilare: assegnare all’arte fini esplicitamente etici equivale a presupporre che essa possa raggiungerli. Ma è davvero in grado di farlo?” La risposta che emerge dalle pagine de L’arte sotto controllo sembra essere negativa, per due ragioni principali. Se l’intento principale di un’opera è quello di veicolare un messaggio dandogli una forma plastica, ci si chiede allora cosa la seconda (l’“artisticità”) aggiunga al primo in termini di efficacia. La seconda ragione è che chi vuole entrare nel “grande campo di battaglia costituito dall’economia dell’attenzione” dovrà confrontarsi con le cifre che misurano l’efficacia dei propri mezzi: “Che potere hanno i 75.000 visitatori di FIAC 2017 o perfino i 500.000 della Biennale di Venezia 2017 rispetto ai due miliardi di like di un qualsiasi video caricato da Justin Bieber, Rihanna o qualunque altro youtuber del momento?”.
IL LIBRO DI WALTER SITI
Sebbene nella sua recente raccolta di saggi intitolata Contro l’impegno Walter Siti rivolga il suo acume critico alla letteratura invece che all’arte visiva, non è difficile trovare parecchi parallelismi tra le sue considerazioni e quelle di Talon-Hugon. Entrambi gli autori sottolineano la potenza dei social media, che plasmano inevitabilmente le modalità di espressione artistica o letteraria (“l’impegno strizza l’occhio all’intrattenimento, l’intrattenimento strizza l’occhio all’impegno”, Siti); entrambi ci ricordano il ruolo fondamentale, complesso, della forma di un’opera (“credo, con buona pace del Tasso, che la forma non sia soltanto lo zucchero sull’orlo del bicchiere, che fa andar giù la medicina amara; credo che serva per estrarre i contenuti che lo scrittore sotto sotto voleva evitare”, Siti). Nei due libri si trovano persino alcuni esempi comuni, come La capanna dello zio Tom di Harriet Beecher Stowe, pubblicato nel 1851, lodato per più di un secolo per il suo impegno antischiavista, ma recentemente accusato di essere razzista a causa di alcune frasi (che rispecchiano evidentemente la cultura dell’epoca in cui fu scritto) come “Tom, anche se è negro, è un uomo fedele”.
CONTRO IL BUONISMO
Fin dal titolo, si intuisce che la critica di Contro l’impegno sarà diretta. Critica di cosa? Delle buone intenzioni, quelle che, secondo la famosa battuta di Oscar Wilde, fanno di un uomo un buon uomo e non un buon artista. In molti casi, spiega Siti, più che buone intenzioni ci troviamo davanti un buonismo usato come tattica di sopravvivenza all’interno un sistema culturale che sempre più mette sullo stesso piano letteratura, spettacolo televisivo e giornalismo, premiando ciò che appare immediatamente condivisibile, non problematico. “È bello che alla cerimonia di insediamento del Presidente in Campidoglio venga invitato un poeta, ma se la poesia che viene declamata è mediocre (Whitman di terza mano, il ricordo di un musical) qualcuno dovrebbe pur notarlo”. Siti, che è notoriamente anche uno dei nostri massimi scrittori, difende, quand’anche con l’aria malinconica dell’ultimo highlander, le ragioni della letteratura, con il suo connaturato tasso di ambiguità e di irriducibilità alla volontà del proprio autore. La letteratura dunque (possiamo sostituire “arte” a “letteratura” in quasi tutte le affermazioni del libro) è scomoda per sua natura, non già per una scelta razionale dell’autore, vezzo istrionico o amor di scandalo. Moralmente parlando, la letteratura è il luogo della contraddizione, dell’irrisolto: racconta, non parteggia; descrive, non prescrive; immagina; accetta, a costo di essere urticante. Da qui l’allarme per l’ondata montante di critiche a sfondo morale che si stanno abbattendo contro opere e/o autori rei di non esprimere qualcosa di intrinsecamente benigno e inoffensivo (si pensi al corso di storia del rinascimento eliminato da un’università americana perché considerato troppo eurocentrico, o alla lista, sempre più folta, di parole da evitare perché ritenute offensive per gli appartenenti a questa o quella comunità etnica, classe sociale, orientamento sessuale, etc. I saggi di Contro l’impegno sono dei capolavori nel loro genere: la lucidità delle argomentazioni tradisce la passione con cui l’autore continuamente ci ricorda che la letteratura (l’arte) è cosa diversa dalla vita, nonostante il duplice gioco di rispecchiamento.
LA QUESTIONE DEL DIALOGO TRA CATEGORIE DIVERSE
Entrambi i libri sollevano la questione, oggi particolarmente eclatante in ambiente anglosassone, delle diverse identità culturali, religiose e di genere, e della (im)possibilità di un dialogo tra di esse. È stato il femminismo ad aver rivendicato con orgoglio una soggettività altra rispetto a quella maschile, che per secoli si è creduta investita di un carattere universale (uomo=essere umano). Tale acquisizione ha riconfigurato il sapere arricchendo molti ambiti di ricerca. In questi ultimi decenni, tuttavia, altre categorie, più o meno “minoritarie”, si sono affacciate sulla scena pubblica rivendicando a loro volta un’alterità in chiave identitaria, dai movimenti LGBT agli afroamericani. Poiché evidentemente le varie categorie si combinano tra loro, lo scenario si è complicato: se nasce una African American Historiography, ci si aspetta che abbia come sottogenere una storia delle donne afroamericane. Il punto di vista di un anziano eterosessuale buddista asiatico sarà inevitabilmente diverso da quello di un giovane transgender cattolico ispanico: le combinazioni tra le categorie sono potenzialmente infinite, e questa è una ricchezza. Il problema, filosofico e pragmatico al contempo, sorge allorché i punti di vista sono “sacralizzati” in funzione identitaria: fin dove è possibile la condivisione dei saperi prodotti, o delle esperienze fatte a partire da queste prospettive considerate incommensurabili tra loro? Quasi ogni giorno si leva la voce di qualcuno che si sente urtato nella propria sensibilità/identità da opere o frasi e chiede una qualche forma di intervento repressivo. È quello che Talon-Hugon chiama balcanizzazione della cultura o Arthur Danto chiamava tribalizzazione del dibattito artistico. Il limite di questa esasperata rivendicazione di alterità a discapito delle somiglianze verrà raggiunto allorché ci ritroveremo di fronte al dilemma esistenziale dell’incomunicabilità profonda tra due qualsiasi esseri umani, di cui l’uno non potrà mai sapere se l’altro percepisce allo stesso modo un suono, una gioia o un dolore.
IL RUOLO DELL’ARTE
Eppure l’arte sembrerebbe aspirare per definizione all’universalità. Una poesia mi tocca, mi parla come se fosse stata scritta ieri apposta per me, sebbene la mia vita e quella dell’autrice ‒ una signorina vissuta fino alla sua morte in famiglia, in una cittadina del Massachusetts centocinquant’anni fa ‒ abbiano poco in comune. “Lo scrittore scrive per dei lettori, naturalmente”, dice Gilles Deleuze in una intervista del 1989. “Ma cosa vuol dire ‘per’? Vuol dire ‘all’attenzione di’, ossia ‘per’ dei lettori. Ma bisogna anche dire che uno scrittore scrive per dei non lettori, cioè ‘non all’attenzione di’, ma ‘al posto di’.
‘Per’ vuol dire due cose […] Artaud ha scritto: ‘scrivo per gli analfabeti, scrivo per gli idioti’ […] Io voglio dire che scrivo al posto dei selvaggi, al posto degli animali. […] Perché è questo che si fa quando si scrive. Quando uno scrive non si tratta di un piccolo affare privato. Sono veramente gli stupidi, è veramente l’abominio della mediocrità letteraria, di sempre, ma particolarmente di oggi, lasciar credere alla gente che per fare un romanzo basti avere per esempio una piccola storia privata, la propria storia”.
– Luca Bertolo
Carole Talon-Hugon – L’arte sotto controllo
Johan and Levi, Monza 2020
Pagg. 110, € 13
ISBN 9788860102362
www.johanandlevi.com
Walter Siti ‒ Contro l’impegno. Riflessioni sul bene in letteratura
Rizzoli, Milano 2021
Pagg. 272, € 14
ISBN 9788817156318
rizzoli.rizzolilibri.it
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