I dimenticati dell’arte. Bruno Caraceni, l’artista che ha ispirato Burri
In molti si sono interrogati su quanto e se Bruno Caraceni abbia anticipato le soluzioni materiche del grande Alberto Burri. Ciò che conta è il carattere innovativo di questo artista, che merita di essere ricordato.
Un critico dal palato fine come Lionello Venturi lo aveva definito “uno degli artisti più interessanti della sua generazione”, mentre Maurizio Fagiolo dell’Arco sosteneva che la sua opera avesse “il sapore fresco dell’inedito”. Alla fine degli Anni Sessanta il Gotha della critica italiana era concorde nel giudicare Bruno Caraceni (Chioggia, 1927-1986) un geniale innovatore, audace e coraggioso sperimentatore di linguaggi e materiali.
LA STORIA DI BRUNO CARACENI
Caraceni era arrivato a Roma da Chioggia, dove era nato nel 1927: orfano di padre a 11 anni, era stato affidato alle cure dello zio, il conte Edgardo Montalbotti. Dopo aver frequentato il liceo scientifico a Rovigo, si iscrive all’Accademia di Belle Arti di Venezia ma è vittima di un drammatico incidente il 13 ottobre del 1944, quando il vaporetto sul quale viaggiava viene colpito da una bomba lanciata da un bombardiere americano. Muoiono 300 persone ma il giovane si butta in acqua ferito e raggiunge a nuoto l’isola di Pellestrina: dopo due mesi di ospedale viene dichiarato invalido di guerra ma rifiuta il sussidio. Una volta ristabilito si diploma in scultura nel 1950, e decide di visitare gli Stati Uniti, ma prima di intraprendere il viaggio viene derubato; a quel punto si trasferisce a Roma, dove per mantenersi comincia a collaborare con il quotidiano Il Popolo. Sposa la giornalista Angela Maltese e affitta uno studio a via Margutta 48: le sue prime opere, realizzate tra il 1952 e il ’54 e intitolate Scherzi, sono dipinti astratti ispirati ai maestri delle avanguardie, tanto che Maurizio Fagiolo definisce Caraceni “un Klee maturato in provincia”. Già nel 1955 però l’artista abbraccia in pieno l’Informale, e i dipinti si caricano di una materia “irta, scabrosa, embricata di scaglie e alveoli”, come ha puntualizzato Guido Bartorelli. Due anni dopo l’artista avvia il nuovo ciclo delle Plastiche (1957-58) anticipando di qualche mese i risultati raggiunti da Alberto Burri.
CARACENI E BURRI
È un momento di grande fervore creativo, che lo porta a esporre due volte alla Biennale di Venezia (1956 e 1958) e alla galleria Appia Antica di Emilio Villa con una personale visitata perfino da Peggy Guggenheim. Come suggerisce Bartorelli, “la lezione di Burri indubbiamente c’è e si fa sentire, ma è così ben assimilata, con tanta intelligenza e originalità, che l’allievo, meditando sui ‘Sacchi’, sarebbe riuscito ad anticipare una delle più proverbiali invenzioni del maestro”. Alla fine degli Anni Cinquanta Burri era impegnato nella produzione dei Ferri e delle prime Combustioni, mentre esporrà le Plastiche per la prima volta solo nel 1962.
“Burri comincia ad avvalersi della plastica combusta contemporaneamente a Caraceni, nel 1957”, aggiunge Bartorelli, “anche se non è ancora maturo il lancio della serie, ed è quindi arduo sentenziare delle precedenze. È suggestivo pensare che, per una volta tanto, sia l’artista ‘minore’ a fornire l’imbeccata al maggiore”.
CARACENI ARTISTA VISIONARIO
Nel frattempo però Caraceni era già da un’altra parte, e lavorava alla produzione di pannelli bianchi con interventi di olio, sabbia e faesite, punteggiati di chiodi ai quali sono legati dei fili metallici. Si tratta dei Gesti e delle Mappe, nelle quali si è voluto vedere un’anticipazione di linguaggi nuovi, portati avanti con mezzi e consapevolezze diverse, da artisti come Christo e Alighiero Boetti. Secondo Maurizio Calvesi, che presenta due personali dell’artista alla galleria Il Cavallino di Venezia nel 1960 e nel 1968 e alla galleria Arte Centro di Milano nel 1969, “Caraceni intesse con i suoi ‘fili’ sillogismi d’una gran lucidità che va come a vuoto; è la certezza di Cartesio e di Mondrian che si snerva nel non-senso di dada”. In quel periodo l’artista era affascinato dalla tecnica, che aveva per lui la funzione di ripulire il mondo per proiettarlo nel futuro. Nei suoi appunti scrive in proposito: “Ho scelto il filo come simbolo per me e direi che è proprio il simbolo della nostra epoca – dalla memoria agli itinerari invisibili degli aerei alle calcolatrici elettroniche insomma l’uomo ha tentato tenta di segnare su un filo tutte le sue attività […] le ultime cose in musica sono esclusivamente inserite su un filo – un filo magnetico – parlo di musica elettronica in questo caso”. La memoria di questo artista visionario e romantico, grande appassionato di vela e di mare (diceva spesso: “Sono nato in un paese dove gli unici alberi che vedevo erano quelli delle barche”), è affidata all’archivio Eredi Bruno Caraceni.
‒ Ludovico Pratesi
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