La collettiva che racconta in prima persona la diaspora vietnamita
Il Muro di Berlino diventa cornice e attivatore della narrazione della diaspora vietnamita e delle seconde generazioni nella mostra allestita al MA*GA di Gallarate. Dove i genitori-artisti Ottonella Mocellin e Nicola Pellegrini illustrano una distanza che è anche spazio di dialogo.
Il Muro di Berlino come punto di incontro, e scontro, per gli eredi dei rifugiati vietnamiti.
È unica e necessaria la prospettiva della mostra The Wall Between Us, al MA*GA di Gallarate fino al 9 gennaio 2022. Il progetto, vincitore della nona edizione del programma di promozione di arte contemporanea del MiC Italian Council, raccoglie senza filtri le esperienze delle diaspore vietnamite e in particolare nella città di Berlino, primo centro europeo di accoglienza per i rifugiati asiatici. Questa collezione di opere forti e innovative la dobbiamo agli artisti di seconda generazione, riuniti e stimolati da Ottonella Mocellin (Milano, 1966) e Nicola Pellegrini (Milano, 1962), che dalla loro posizione di genitori adottivi di una figlia e un figlio nati in Vietnam hanno a loro volta creato delle opere che mostrano cosa accade là dove si intersecano affetto, memoria, identità, storia e appartenenza. “C’è differenza tra appropriation è appreciation culturale”, racconta Pellegrini. “Mostrando i lavori della comunità vietnamita ci hanno accusati di esserci fatti belli con il lavoro degli altri, ma noi li abbiamo ascoltati, creando un ponte di scambio e alterando il nostro lavoro per includere la consapevolezza acquisita. Abbiamo scoperto che la comunità vietnamita berlinese è soggetta a una serie di suddivisioni interne: se Berlino ovest era il luogo dove si rifugiava chi scappava dal regime comunista, Berlino Est era quello dove andavano i simpatizzanti comunisti all’interno di un programma di ricollocamento sovietico per lavorare nelle fabbriche”. La consapevolezza post-coloniale che ne è scaturita ed è oggi contenuta nella collettiva è un regalo raro al grande pubblico.
LE OPERE IN MOSTRA AL MA*GA
La mostra, frutto della collaborazione sviluppata con SAVVY Contemporary di Berlino, capofila del progetto, e di quattro workshop curati dal loro archivio Colonial Neighbours, raccoglie le opere di architetti e artisti quali Van Bo Le Mentzel, Jacqueline Hoàng Nguyễn, Hương Ngô e Hồng-Ân Trương, Minh Thang Pham, Minh Duc Pham, Thị Minh Huyền Nguyễn e Danh Vo, oltre naturalmente a quelle di Mocellin e Pellegrini, che hanno presentato un video, delle camicie con parole simboliche e mappe delle due Berlino e una serie di impressioni su carta di “rumori scomparsi” chiamata appunto Ghost tapes. All’inaugurazione della mostra, l’artista Jacqueline Hoàng Nguyễn (nata a Côte-des-Neiges, in Canada) è presente per spiegare l’origine e il significato della sua opera, Presence in absentia, che mostra due figure finemente realizzate con la sabbia e disposte su una base colorata in legno, raffiguranti il nonno dell’artista e la madre di lui: “Quando il regime comunista è salito al potere, moltissime persone legate al governo precedente distrussero i propri averi, e così anche la mia famiglia – mio nonno era un mandarino dell’Indocina, un alto funzionario – che però ha conservato un tesoretto di 500 fotografie. Quando hanno lasciato il Vietnam come ‘boat people’ [chi, tra enormi rischi e sofferenze, fuggiva dal Paese in barca, N.d.A.] hanno portato nella loro unica valigia quelle fotografie. Sono sopravvissute, straordinariamente, e oggi compongono un archivio, che è alla base del mio lavoro”. Hoàng Nguyễn aveva cominciato a lavorarci durante una residenza artistica in Svezia, ma ha deciso di continuare il lavoro da sola per non scendere a patti con nuove letture coloniali: “Mi sono accorta che in Svezia stavano cercando di ri-colonizzare la storia, che era anche la storia della mia famiglia, con la loro prospettiva occidentale, senza sapere nulla del Vietnam e dell’Indocina”. Le due figure di sabbia, come i mandala, sono effimere e saranno spazzate via da un performer alla fine della mostra. Il dialogo generazionale è comune a molti dei lavori esposti: lo si vede nelle fotografie che ritraggono le madri delle due artiste Hương Ngô e Hồng-Ân Trương – a cui sono intervallati degli estratti testuali degli atti del Congresso Americano degli Anni Settanta – e in una delle copie della lettera di un monaco francese destinato alla ghigliottina a suo padre, opera di Danh Vo attraverso la calligrafia del proprio padre. È forte questo dialogo anche nell’opera Wiedersehen di Minh Duc Pam, in forma di lettere a sé stesso (a cui affianca un’ambigua orchidea), e, alla sua massima potenza, nel video in quattro canali di Mocellin e Pellegrini a cui è dedicato il secondo ambiente dei tre complessivi al MA*GA. Questo, chiamato come la mostra The Wall Between Us, è una commovente lettera dei due artisti-genitori alle madri biologiche dei loro figli, sussurrata a turno da entrambi mentre – inframmezzate a delle parole chiave in ordine alfabetico – scorrono le immagini della loro famiglia, con i bambini Rosa Dao e Tito ancora piccoli e il cane, a bordo di una barca a vela trainata da una piccola Trabant attraverso le antiche cicatrici del Muro di Berlino.
L’IMPORTANZA DEL MURO
“I muri sono un confine necessario. Certo, vanno abbattuti là dove generano disuguaglianze, ma restano un elemento necessario per vivere con consapevolezza della propria identità”, spiega Pellegrini. Può sembrare impopolare la sua visione, soprattutto all’alba delle distruzioni metaforiche e non delle barriere in tutto il mondo in nome della libertà di movimento. Eppure la sua decennale esperienza con Mocellin, come per l’esperimento di incatenamento attraverso un muro all’Isola dell’Arte per difendere la Stecca degli Artigiani, gli insegna che il confine è anche luogo di incontro e unione. Anche perché, a differenza di come molti lo pensano – cioè un singolo oggetto, imponente e minaccioso –, il muro è in realtà uno spazio, una no man’s land proprio come quella tra i due lati del Muro di Berlino. Ed è proprio all’interno di questo confine, storico e immaginario, che si colloca tutta la mostra al MA*GA e in particolare l’opera dell’architetto Van Bo Le Mentzel, che nell’intercapedine di una parete espositiva ha collocato una minuscola casa, spazio di condivisione all’interno di un supposto emblema di divisione.
L’ASSENZA DI UNA CURATELA COSTRUITA
Facendo fatica a trovare contatto con la comunità vietnamita, Mocellin e Pellegrini hanno chiesto aiuto a SAVVY, galleria da anni impegnata a smontare meccanismi discriminatori e colonialisti nelle manifestazioni artistiche. “Abbiamo messo in chiaro che eravamo disposti a farlo se questo lavoro poteva essere preso in mano dalla comunità stessa: la narrazione doveva essere controllata da loro, doveva essere una narrazione DALLA diaspora, non solo DELLA diaspora”, racconta la curatrice Elena Agudio. “È stato particolarmente difficile durante la pandemia, anche per via dell’acuirsi della xenofobia anti-asiatica, ma si è formato un gruppo solido di intellettuali, artisti e attivisti durante i workshop, a cui ha partecipato anche la figlia maggiore degli artisti Mocellin e Pellegrini”. In questo senso non esiste una vera e propria curatela: “Quello che è stato creato è un framework contestuale di urgenza politica, proprio di SAVVY, ma io non mi sento curatrice del progetto, solo una delle persone che ha facilitato questi incontri e lo smantellamento del sistema”, racconta Agudio. “La mostra riconnette proprio la dimensione dell’incontro: i disegni della scrittrice-atleta Thị Minh Huyền Nguyễn, editrice della pubblicazione che nascerà a breve dal progetto, riflettono questa prospettiva di scambio che è poi lo scopo dell’esposizione intera”.
‒ Giulia Giaume
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