Non solo musica da club. Torna Berlin Atonal con nuovo format mostra-tour (non) guidata
Fino al 30 ottobre piccoli gruppi di visitatori possono entrare nell'ex centrale elettrica di Berlino per scoprire una successione coreografica di opere d’arte, video, sonore. Per superare la logica del club. Ne abbiamo parlato coi direttori del festival Laurens von Oswald e Harry Glass.
Con il termine Metabolic rift, Karl Marx ha teorizzato una rottura tra umanità e resto della natura come conseguenza della produzione agricola capitalista e della crescente divisione tra città e campagna. Ora quel concetto dà il titolo al nuovo ambizioso progetto espositivo di Berlin Atonal, lo storico festival dedicato alla musica atonale – musica senza una linea melodica riconoscibile, in questo caso elettronica – che presenta progetti interdisciplinari dal 1982 (con una pausa dal 1990 al 2013 e di nuovo nel 2020 causa pandemia) e che ha accolto negli anni gruppi come Einstürzende Neubauten.
MOSTRA-TOUR NON GUIDATA NEGLI SPAZI DEL KRAFTWERK DI BERLINO
Metabolic Rift è una mostra-tour (non)guidata attraverso l’intero edificio del Kraftwerk di Berlino, che si presenta come una sequenza di interventi site-specific di importanti artisti internazionali visivi e del suono, capace di incanalare l’esperienza del pubblico attraverso un tempo organizzato, come in una performance o in un sistema metabolico, appunto. Fino al 30 ottobre piccoli gruppi di visitatori possono entrare negli spazi dell’ex centrale elettrica per scoprire una successione coreografica di assemblaggi artistici, per lo più di grandi dimensioni: dai paesaggi urbani futuristici progettati dallo scultore congolese Rigobert Nimi a una collezione di disegni dell’artista visionaria Liliane Lijn, una nuova installazione di Cyprien Gaillard che lavora con Jamal Moss, fino a un’opera in situ di Sung Tieu insieme a Ville Haimala di Amnesia Scanner, pezzi scultorei di Giulia Cenci, installazioni sonore di Pan Daijing, nuovi lavori di Tino Sehgal, Nina Canell e molti altri. Per capirne di più ne abbiamo parlato con Laurens von Oswald e Harry Glass, Direttori e co-curatori del Festival…
Come nasce questo nuovo format?
Sapevamo che non potevamo fare un festival musicale “tipico” quest’anno a causa delle restrizioni del Covid19, ma sentivamo anche questo bisogno profondo di trovare un modo per riattivare lo spazio del Kraftwerk dopo che era stato inattivo per un anno e mezzo. Questo vincolo è stato davvero molto utile, ci ha portato a questo nuovo concetto: organizzare gruppi di persone nel tempo e nello spazio, attraversando diversi media e situazioni.
In cosa consiste il tour “non guidato”?
Abbiamo parlato di un tour non guidato che non ha molto senso, ma sottolinea il fatto che esiste una logica nel modo in cui i visitatori dovrebbero interagire con lo spazio, ma che non è palese. Alcuni degli spazi più interessanti della centrale non sarebbero accessibili in questo modo se i club fossero aperti, quindi questo ci ha offerto questa rara opportunità di fare le cose in modo diverso. Ci ha anche spinto a esplorare diversi tipi di produzione artistica. C’è una componente coreografica nella mostra, un insieme di indicazioni e suggerimenti che spingono i visitatori attraverso lo spazio in vari modi. Abbiamo pensato a una specie di performance. Queste cose forniscono la continuità tra la mostra ei nostri interessi musicali.
Secondo quali criteri avete selezionato gli artisti?
Ci interessava sapere non solo cos’è un’opera in particolare, ma anche cosa fa. Cerchiamo di non essere troppo pesanti nel prevedere o prescrivere temi che dovrebbero spiegare il contenuto di ciò che gli artisti stanno facendo. Le opere stesse esprimono ciò che vogliono esprimere meglio di noi. Ma un tratto unificante è che molti degli artisti coinvolti sono davvero concentrati sul processo, che si tratti delle installazioni scultoree di Daniel Lie in cui la fermentazione e il decadimento sono centrali nella vita dell’opera o Jeremy Touissant-Baptiste che accorda una pentola di ferro per farla risuonare a una frequenza specifica.
Ci sono molti lavori monumentali…
Immagino che la questione della scala sia interessante soprattutto in uno spazio così smisurato e soprattutto dove abbiamo cercato quasi di proposito di disorientare un po’ le persone. Non abbiamo, però, lavorato esclusivamente con installazioni su larga scala. Ci sono anche molti momenti immersivi: quello di Cyprien Gaillard con la sua opera Hieroglyphic Being, per esempio, o il lavoro video di Armand Hammer. Poi, d’altra parte, ci sono pezzi come quello di Matthew Angelo Harrison, che racchiudono un impatto emotivo altrettanto stimolante in una forma fisica molto più piccola. Per noi era importante raggiungere questo tipo di equilibrio nella selezione.
– Claudia Giraud
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