Il conte di Montecristo e Sebastião Salgado in due mostre a Roma
Due mostre diverse, ma complementari, hanno preso forma nell’Hotel de Russie di Roma. Mettendo a confronto un grande mito letterario e un caposaldo della fotografia contemporanea.
“In ogni modo pare si possa affermare che molta sedicente ‘superumanità’ nicciana ha solo come origine e modello dottrinale non Zaratustra ma Il conte di Montecristo“, scriveva Gramsci nelle sue lettere dal carcere. Terribile il dilemma di chi si trova a dover interpretare l’altrui lavoro, perché suo è il compito di dare nome all’intenzione, e il rischio di scambiare per alta filosofia personaggi di romanzi d’appendice è sempre molto alto.
Eppure può capitare di voler dare una chiave di lettura della realtà diversa da quella che il curatore stesso può aver pensato, e di farlo in positivo, riscontrando elementi di riflessione interessanti e meritevoli d’approfondimento, anche se magari non voluti da chi espone.
LE MOSTRE ALL’HOTEL DE RUSSIE
Capita che in un noto albergo romano, L’Hotel de Russie, che si diletta a ospitare mostre e rassegne all’interno delle proprie mura per i clienti e per gli appassionati, si siano alternate in pochi mesi due mostre, teoricamente molto lontane tra loro, ma praticamente capaci, se messe a confronto, di farci riflettere sulla natura umana, e soprattutto sul contrasto della narrazione tra i primi e gli ultimi della terra. La prima, andata in scena dal 21 giugno al 2 luglio nella Sala Diaghilev dell’hotel, ha visto esposte una fedele riproduzione delle pagine del manoscritto originale dedicate al passaggio del Conte di Montecristo all’Hotel de Russie, gli splendidi acquerelli a tema e le tavole del fumetto realizzati dall’artista Carlo Rispoli, le creazioni di Simon Clavière-Schiele, che raffigurano il ritratto di Alexandre Dumas e del Generale Dumas che ha ispirato i tratti del personaggio de Il Conte di Montecristo.
Mostra tutt’altro che casuale visto che nel romanzo di Dumas del 1844 Edmond Dantès compare per la prima volta con il nuovo nome (fino ad allora si è fatto chiamare Sindbad il marinaio) di Conte di Montecristo proprio nella Città Eterna, ed è proprio in quest’hotel insieme a Franz d’Epinay (alterego di Dumas stesso) e il Visconte de Morcef che assiste al Carnevale e all’esecuzione di un condannato.
Se la prima mostra è stata dunque di stampo letterario (tematica alla quale il gruppo Rocco Forte Hotels, a cui appartiene il De Russie, dovrebbe essere grato, vista la recente acquisizione di Villa Igiea, ex casa di famiglia Florio, al centro del ritrovato interesse per la famiglia siciliana seguito ai libri dei Leoni di Sicilia), la seconda invece, intitolata Dalla mia terra alla Terra, inaugurata il 29 settembre e in cartellone fino 31 ottobre, nelle stesse sale ospita 17 fotografie di Sebastião Salgado (Aimorés, 1944) scelte in collaborazione con Contrasto, casa editrice del settore della fotografia italiana, e Alessia Paladini Gallery: il bianco e nero di ritratti di uomini e donne sconosciuti, di lavoratori o rifugiati: Africa, Brasile, Americhe, Mozambico e Ruanda, le fotografie di Genesi, sono presentati insieme ad alcune immagini più recenti. Un piccolo antipasto di Sebastião Salgado. Amazônia, la mostra in corso al MAXXI, curata da Lélia Wanick Salgado, moglie e compagna di viaggio e di vita del grande fotografo.
Se concettualmente e nella volontà le due mostre hanno avuto scopi molto diversi, è interessante guardarle dall’esterno per scoprire che, attraverso i secoli, le arti e il dolore tendono a raccontare sempre le stesse tematiche, e che, al contempo, il velo di un certo tipo di narrazione è caduto in favore del realismo.
DA MONTECRISTO A SALGADO
Portiamo come esempio l’opera monumentale del Il Conte di Montecristo, divisa in capitoli a seconda della storia del personaggio. Per tutta la prima parte della storia il protagonista è Edmond Dantès, marinaio in via di promozione prima, carcerato poi, evaso infine. In questa parte della narrazione che serve da preambolo a quando lo stesso personaggio sotto altro nome diventerà infinitamente ricco, lo si vede rapportarsi continuamente al proletariato urbano delle grandi città dell’epoca, che per quanto riguarda Marsiglia è composto da marinai e piccoli artigiani, per quanto riguarda Roma (dove, come già detto, si presenterà già sotto mentite spoglie), invece, sono pastori e briganti. Di tutta questa marmaglia umana viene data dall’autore una descrizione quasi romantica, di persone oneste e combattive, trainate da una vita semplice ma estremamente orgogliose del proprio lavoro, dedite a regole d’onore molto rigide e severe. Eccezion fatta per il padre di Dantès (personaggio drammaticamente rappresentato proprio in giustificazione della vendetta), nessuno soffre la fame e anche i briganti e i contrabbandieri sono, per quanto crudeli, fedeli ai codici morali.
Se la penna di Dumas è clemente, romantica e addirittura capace di innalzare il brigante romano Luigi Vampa a coprotagonista, ben diversa è la lente sugli ultimi che Sebastião Salgado ci ha abituato a utilizzare. Il fotografo infatti si è più di molti altri immerso nella miseria umana, uscendone come testimone morale della bassezza a cui la modernità ci ha abituato. Non solo quella della guerra, innegabile flagello, ma anche quella dell’avidità, che costringe al lavoro di miniera un popolo di disperati, destinato a vivere e a morire sotto il peso del capriccio dell’occidente, e della fame che porta le popolazioni all’esodo. Nelle sue foto troviamo il verismo crudele di Rossomalpelo, senza eroi e senza pietà. La ricerca dell’oro, la ricerca del petrolio, la ricerca di una casa: tutta la l’espressione della disperazione di Salgado ci colpisce proprio perché così senza speranza, e se Dumas sosteneva che “ogni dolore ha la propria sacralità”, è veramente difficile dare un senso allo smarrimento che proviamo davanti all’opera del fotografo brasiliano, proprio a causa della sua inesattezza.
LA QUESTIONE DEL SUPERUOMO
Se questo contrasto tra gli ultimi del romanzo e quelli della contemporaneità può apparire, seppur interessante, di facile digestione, è più intrigante ragionare sulla figura del superuomo, di cui il Conte di Montecristo era a parer di Gramsci (che evidentemente non trovava il lui uno specchio per via della carcerazione) l’incarnazione semplificata. Come già accennato, nella prima versione non pubblicata del Conte di Montecristo, il romanzo iniziava a Roma, e il narratore era Alexandre Dumas stesso che con si trovava in città con l’amico Albert de Morcef, e vi incontrava il Conte. Tramutatosi poi nell’alterego letterario di Franz d’Epinay, l’autore scompare dalla propria opera, rendendosi solo strumento per la trasposizione della storia e non suo protagonista. Completamente agli antipodi è la figura artistica di Sebastião Salgado, la cui vicenda umana in qualche modo è parte stessa della sua opera. Ammirando quello che lui (come altri grandi, in primis Steve McCurry) hanno fotografato in giro per il mondo, alla sofferenza per il soggetto si lega indissolubilmente l’ammirazione per l’autore, capace di scendere dall’Olimpo della società occidentale per immergersi nel fango della Terra, arrivando a mettersi in pericolo fisico. L’autore è a sua volta protagonista del nostro percepire l’opera, e se del Conte di Montecristo noi seguiamo l’ascesa sociale, culturale, che al contempo corrisponde a una perdita d’umanità, in Salgado assistiamo all’esatto processo inverso: la sua crescita umana è ai nostri occhi figlia della capacità di rinuncia.
‒ Federico S. Bellanca
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